“Notte intera senza sonno” al Teatro “Virgillito” di Motta
La vita della “cantantessa” Rosa Balistreri raccontata da Giovanna Criscuolo
Una scenografia essenziale si dischiude innanzi agli spettatori che il 20 aprile 2012 hanno afferrato al volo l’occasione di assistere ad uno spettacolo unico, popolando la sala del cine-teatro Virgillito di Motta Sant’Anastasia, rimasta incredibilmente semi-deserta forse per colpa di una crisi che è ormai divenuta l’alibi perfetto a sostegno di un generalizzato – e penoso – disinteresse: una sedia incompleta ancora da impagliare, quattro cerini timidamente accesi, una valigia. Poi qualche faro per illuminare gli angoli della scena e, seduto accanto al sipario, il musicista Massimo Provenzano chiamato ad arrangiare le più note canzoni dell’immensa Rosa Balistreri e ad accompagnare col suo basso la meravigliosa prova dell’attrice Giovanna Criscuolo, insieme corpo e voce della cantantessa di Licata.
Niente narratori fuori campo, niente proiezioni sperimentali o filmati da repertorio: sul palco solo Rosa e i suoi racconti di vita vissuta, così reali ed aspri come una roccia puntuta che né vento né acqua sono riusciti mai a levigare. Le sue canzoni e la sua musica non hanno proprio nulla di meditato o rifinito a tavolino: sono scaglie genuine, scabre come confessioni in punto di morte impregnate di tradizione e slanci urlati di un cuore che non si trattiene, che sente il bisogno di esternare sofferenza e dispiaceri nell’unico modo che sa ed in cui valga la pena farlo. Sembra una Rosa inciampata nel suo passato, quella dei registi Marco Alessi e Salvo Rinaudo: una Rosa sanguigna, adorna di un’aura di grazia ruvida, che racconta agli ultimi la sua esistenza tra gli ultimi e che improvvisa una storia da focolare, la sua storia, mentre come una bimba impaziente si trova dietro le quinte di un Sanremo al quale parteciperà per non essere capita; proprio lei che, immersa dalla nascita nella fonte del disincanto, ha imparato a riconoscere il male che da sempre l’ha riconosciuta. Per la Criscuoloed il suo gruppo di lavoro, il borgo di Motta Sant’Anastasia – grazie al Centro Giovanile mottese e al periodico l’Alba che hanno voluto lo spettacolo – è stato l’ennesima tappa del cerchio di un itinerario teatrale destinato ad aprirsi e chiudersi nella Licata città natale dell’artista siciliana; il lavoro registico è stato condotto con la curiosità rispettosa, e mai morbosa, di chi ha cercato di restituire un senso profondo ad una vera e propria bandiera, quale era la Balistreri, fatta straccio da chiunque l’abbia impropriamente sventolata in nome di una sicilianità astrattamente sentita. Non è solo dalla biografia ufficiale che hanno ricavato prezioso materiale umano Rinaudo e Alessi, ma anche dai racconti dei compaesani che la conobbero e, superfluo aggiungerlo, dalle sue canzoni: da Siminzina alla stupenda Mi votu e mi rivotu, dall’impulsiva e dura Buttana di to mà a Cu ti lu dissi per citarne solo alcune. Rosa ci racconta della vita di povertà e stenti vissuti in quel di Licata, dove nessuno si accorse mai dell’arrivo della guerra, meritevole solo di avere dato un nome alla fame, instancabile convivente insieme alla fatica che lei conobbe da piccolissima decidendo di seguire il padre “pagghiaru di seggi” a precedere il sole attraverso i campi, per raccogliere i soli fasci di grano che non fossero cibo per muli; ci racconta di quel padre, geloso e violento verso la sua infelice madre che in silenzio soggiaceva ai capricci bestiali del suo sposo come una sedia di paglia sfondata. Fa una pausa, si ferma, si commuove mentre poi narra di come il canto divenne la voce di un’anima graffiata e perciò viva, che voleva e doveva essere ascoltata da tutto il paese mentre urlava la libertà; poi Iachenàzo, copia terribile del padre, l’unico disgraziato da potersi maritare in mancanza di una dote, e la figlia per la quale, invece, valesse la pena stancarsi ancora ed ancora cantando in matrimoni e comunioni e battesimi, per un corredo che la potesse salvare da penose nozze; e da lì i mesi di carcere, quel treno che la portò a Firenze, il nobile che la ingravidò di morta vita ed ancora Manfredi che gliela riempì di colori e l’incontro con Dario Fo e molto altro ancora: 63 anni di esperienze forti che non era facile selezionare, ma che un’intensa Giovanna Criscuolo, sorretta da una sceneggiatura potente e densa di sorprendenti immagini poetiche, ha riacceso: perché Rosa non è morta, è ancora viva, ògghiu ‘cci ‘nnè n’a lampa, c’ancora adduma.
Giorgia Capozzi
Mer, Apr 25, 2012
Spettacolo