“Prima del silenzio” di Giuseppe Patroni Griffi al “Verga” di Catania
Il senso della vita in una storia di sopravvivenza sociale nella regia di Fabio Grossi
Un “Lui”, un “Ragazzo” (personaggi impersonali) e tre proiezioni della coscienza di “Lui” (la propria moglie, il cameriere e il proprio il figlio), in una storia di sopravvivenza individuale, per i primi due, in carne ed ossa sul palco, a differenza della “Moglie”, “Il Cameriere” e “Il Figlio” in immagini virtuali sostanziate su teli velati per renderli fantasmi della mente. Questo il nucleo essenziale di Prima del silenzio di Giuseppe Patroni Griffi, da circa due anni, rappresentato nei più rinomati teatri italiani sotto l’eccellenza registica di Fabio Grossi e l’imponente interpretazione di Leo Gullotta (“Lui”), ben spalleggiato dal giovane coprotagonista Eugenio Franceschini (“Il ragazzo”); mentre i tre (che arricchiscono, specialmente la prima, l’attorialità e la scenografia) sono, rispettivamente, Paola Gassman, Sergio Mascherpa e Andrea Giuliano. Le musiche sono di Germano Mazzocchetti, i video di Luca Scarzella.
Di recente, il dramma, prodotto dal Teatro di Roma in collaborazione col Teatro “Eliseo”, è stato dato al Teatro Stabile “Verga” di Catania.
Su un divano rosso – rappresentazione di una barca nelle fantastiche peregrinazioni mentali dei due – “Il ragazzo” simula l’atto del remare mentre l’altro, “Lui”, un cinquantenne, che poi lo sostituirà ai remi, parla, parla come un fiume in piena ma senza usare parole a vanvera. È un intellettuale, un poeta che aveva abbandonato la famiglia, deluso dalla perdita della libertà individuale; “Il ragazzo”, ventenne, invece, è un girovago anarcoide che non vuole «dividere niente» di lui «con gli altri».
L’intellettuale, che è un esperto di cinema, esordisce con la vita mondana di Gary Cooper che per il giovane diventa Ghericupa, dimostrando i suoi limiti culturali.
Entrambi, per motivi diversi, sono alla ricerca di qualcosa che li appaghi, che faccia loro trovare il senso della vita, rendendoli più veri e autentici, lontani dalle ipocrisie sociali. Difficile però; s’imbattono infatti, nel vogare, in un’isola deserta, metafora dell’incomunicabilità; anche fra loro due, così differenti per cultura e obbiettivi di vita. Li tiene assieme, però, una velata e ambigua intesa sessuale, pare rimasta sospesa. Come sospeso rimane il desiderio del poeta di condurre il giovane all’ascolto, che metaforicamente lo addebita al mare, chiara trasposizione del “fiume” del Siddharta di Hermann Hesse: «Devi porgere l’orecchio, stare attento, devi sapere ascoltare, e a poco a poco ti arriveranno, sempre più forti, tra il fragore delle ondate, dei risucchi, delle spume, suoni strani che, aguzzando l’udito, scoprirai essere suoni di tragiche esistenze».
Al centro della loro relazione sempre la parola, ben usata da “Lui”, non amata dal “Ragazzo”, anzi rinfacciatagli: «Io non lo voglio il tuo vocabolario, non mi appartiene, non mi serve […] Il mondo che ho davanti agli occhi è una realtà di povere cose e le tue parole sono ricche, affascinanti come serpenti.»
La parola, pur se ha abbandonato libri e poesia, prodotti borghesi, continua ad essere tutto per “Lui”: è altra poesia, vera ed eternatrice; foscolianamente, nei dovuti distinguo antiegolatrici di Patroni Griffi, è superamento della morte stessa: «La morte è argomento di poesia, solo i poeti possono celebrarla». Peccato però che la gente è «brutta» e «volgare» e «ne approfitta», “seppellendo” «I Belli e i Dannati, dietro i quali il mondo camminava una volta».
In tutto questo, il gioco amoroso è natura in entrambi, ma di diversa fattura: raffinata e sublime in “Lui”, istintiva e narcisista nel “Ragazzo” fino al sadomasochismo; probabilmente bugiarda corazza per svincolarsi da “Lui”. Bugia o meno, l’amore (Gino Raya docet) è antropofagia; cannibalismo come lo concepiscono “Il cameriere” e “Il ragazzo” che addirittura lo estremizza ad autofagismo.
In questa nodale tessitura, si intrecciano le apparizioni dei tre personaggi virtuali che rifiniscono il personaggio centrale: “La moglie” che rimprovera al marito (che si ostina a non riconoscerla: «Chi siete. Non vi conosco.») di averla – lui, “entità inutile” e “reazionario” – usata per la sua scalata sociale e, poi, di averla abbandonata assieme ai suoi figli per chiudersi in un bugigattolo con un giovane amante; “Il cameriere” che, invece, gli si dimostra premuroso e servizievole, cercando di recuperarlo alla sua famiglia, ma non tanto per amore verso i figli e la moglie quanto per riappropriarsi dei diritti di casta; “Il figlio” che vuole, invece, il suo ritorno a casa per recuperare il tempo perduto nei rapporti col padre e gioire assieme di un premio di poesia in seguito alla pubblicazione di un libro che lui stesso gli aveva curato.
Ma il padre non è disponibile verso il figlio, cui non perdona l’ipocrisia piccolo-borghese in difesa e a conservazione della casta. Gli dà però un ammaestramento: «Non castrarti per produrre socialmente a vantaggio d’un formicaio ingrato, che ha per unico Dio la sopravvivenza.»
Che rimane, allora, di tutto questo ordito familiare amicale sociale generazionale? di questo attrarsi e respingersi nel missaggio di incomprensioni affinità odio amore? Rimane, mentre “Il ragazzo” se ne va via in silenzio con la sua sacca, il conforto-speranza della parola che “Lui” – sotto una lieve pioggia di lettere ondoleggianti, rese suggestive dalla videoproiezione su schermo trasparente – celebra francescanamente, condannando censure, razzismo e stermini dei popoli, chiedendo perdono «per la parola sbagliata», «male usata», «carpita», «che seduce», «aumentata di potere», «che ha sfruttato i miseri, gli illusi, le vittime designate», «colta che ha confuso gli innocenti»…
E mentre il vento si addolcisce, “Lui”, «naufrago indomito, ritrova la parola»: «Ogni uomo che muore risorge in un altro che nasce. La parola che non trova asilo nella bocca dell’uomo è già la morte senza la resurrezione.»
Pino Pesce
già sul cartaceo de l’Alba
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Sab, Mag 16, 2015
Primo Piano, Spettacolo