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“Enrico IV” di Pirandello al Teatro “Verga” di Catania

Mar, Feb 17, 2015

Spettacolo

Due ore di recita artificiosa ha svuotato il dramma del suo dolore

Il 27 gennaio, al Teatro “Verga” di Catania, è andato in scena Enrico IV di Luigi Pirandello registrando una presenza di pubblico massiccia.

In effetti, la portata della rappresentazione tocca vette elevate nella sfera delle drammaturgie e dei temi filosofici ed esistenziali della letteratura internazionale del Novecento.

La follia, tema di fondo attorno a cui orbita un intreccio di vite, di giochi di ruoli e amari epiloghi, chiama in causa le riflessioni più spietate sul senso della realtà e della finzione, sull’autenticità dei  ruoli sociali e sulle convenzioni, rievocando drammi esistenziali già celebrati in opere come Il Berretto a sonagli e i Sei personaggi in cerca d’Autore.

Un giovane, mentre partecipa ad una cavalcata in costume, nei panni di Enrico IV, imperatore di Germania, viene disarcionato dal cavallo, batte la testa e impazzisce.

Da quel momento crede di essere veramente Enrico IV esigendo rispetto per il suo ruolo regale.

La finzione è pietosamente assecondata da parenti ed amici, che trasformano la sua villa in reggia e lo circondano di sevi vestiti da cortigiani. In questa corte fittizia, Enrico… (l’autore non cita mai il nome che aveva in precedenza) vive per dodici anni, finché ad un tratto rinsavisce.

Si trova già maturo e solo senza aver vissuto la giovinezza. Matilde Spina, la giovane marchesa che, al tempo della festa in maschera, era sotto le spoglie di Matilde di Canossa (rivale dell’imperatore), è divenuta poi l’amante di Belcredi, odiato rivale del finto Enrico IV per avergli provocato la caduta. Escluso dal consesso civile, il finto imperatore decide di farsi credere ancora pazzo e guarda la vita dal di fuori, ora che essa gli è negata. Ma poi, dietro il consiglio di uno psichiatra, che avrebbe voluto farlo guarire mettendogli davanti Frida, la figlia della marchesa, rassomigliante alla madre, diventa invece nuovamente pazzo e uccide, in seguito ad un raptus, Belcredi. Ora, sarà costretto a fingere la pazzia per evitarsi una condanna giuridica e sociale; dice infatti:«Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per sempre!»

Questa del 27, è da ritenersi un’esperienza che può lasciare perplessi chi ha del Teatro un’idea diametralmente opposta a quella proposta da Branciaroli, regista e protagonista principale del dramma.

Certamente il noto attore e tutta la compagnia s’impongono al pubblico per disinvoltura e padronanza scenica; e certamente si percepisce l’impegno a portare avanti una letteratura densa di umana tragicità e soprattutto di alto valore intellettuale tutt’altro che spicciola o pragmatica; si direbbe, per palati fini. Ma proprio questa universalità, intrisa di paradossi,  di tragicità e di dolore cosmico, deve trovare poi un corrispettivo nella traduzione scenica e nel  linguaggio teatrale.

Per intenderci: il teatro è comunicazione. E questo è un dato indiscutibile. Fatta questa assiomatica premessa, le domande, inevitabili alla fine dello spettacolo, sono state le seguenti: perché sono andato a teatro? Per vedere l’Enrico IV di Pirandello? Perché a recitarlo era Branciaroli e la sua dotta compagnia? Per provare delle emozioni? Per imparare? Per godere di una serata ricca di messaggi ben trasmessi? Per conoscere una storia che non sapevo? Per riflettere? Per ridere o sorridere?

In ogni caso, un comune denominatore tiene insieme tutti questi interrogativi: vado a teatro per sentirmi in qualche modo soddisfatto, arricchito e compiaciuto! Ebbene, nel pieno rispetto per la professionalità degli attori e per il punto di vista da cui son partiti per produrre e realizzare una particolare atmosfera comunicativa, che rendesse meglio possibile il senso globale del lavoro pirandelliano, la resa finale non ha prodotto, per molti, un risultato convincente.

Il frequente non senso, l’artificiosità della recita, hanno invaso due ore di spettacolo, svuotando il dramma del dolore di cui è carico e alterando la sua percezione reale.

Numerosi i picchi di “teatralità” caricaturale: la bellissima bomba sexy, sempre perfetta nelle pose sensuali e che saltava istericamente, come una molla, da una sedia ad una pedana, senza posa, ostentando fastidiosamente un’idea di donna che, sebbene si convertirà, temperando un poco gli scatti nevrotici, alla fine della storia, in realtà, fa un po’ sorridere e screditare la credibilità di tutta l’impalcatura.

Non ce ne vogliano gli italiani, ma Pirandello era siciliano e forse parlava e pensava anche nella sua “lingua”, e certamente nulla del genere poteva venirgli in mente. 

Perché? Perché nel pieno rispetto dell’idea di attualizzare la storia (prerogativa di ogni classico), riesce difficile pensare ad un Pirandello che fa  innamorare il suo eroe di una donna così antipatica!

Così come è difficile provare simpatie o sentimenti di qualsivoglia natura, che non sia l’indifferenza, nel vedere le reazioni di Enrico IV quando rivede, dopo dodici anni, la donna che amò e per cui tutto è successo.

Rimane freddo, lì a gestire la sua oramai sopraggiunta sapienza sotto le mentite spoglie della follia, che dispensa ironia controllata, senza tradire mai un istante di umana fragilità che si traduca in un guizzo della voce, o un gesto istintivo verso lei.

O ancora, la flemmatica ironia con cui Branciaroli si limita a non simpatizzare col barone Belcredi, responsabile della sua caduta e dello spreco di dodici anni e di tutta la vita a seguire.

E’ assolutamente inverosimile trovarsi davanti colui che ti ha rubato la vita e rimanere compassatamente sarcastico, senza comunicare il fuoco sotto la cenere di chi vorrebbe, quanto meno morderti alla gola per lo scempio senza rimedio. Certo, adesso la follia è una scelta. È la maschera che ti libera e ti fa godere dell’impunità ma, la recitazione borbottata, spezzata di Branciaroli, ha reso difficile anche seguire le parole e il significato immediato delle frasi, spente e senzapathos. Recitate prevalentemente con atteggiamento aulico di voce e di posture ma privo di forza e umanità.

E Frida, la figlia che si presta suo malgrado al gioco, anche lei non piace. E’ fredda, disarmonica, spigolosa.

L’unica figura apprezzabile è proprio Belcredi, l’unico a sembrare vero, “normale”, senza costrutti artificiosi ed esagerazioni, l’unico che riusciva a comunicare, perché di questo si parla, il disagio della sua colpa e il doppio gioco che si sarebbe apprestato a fare. Gli altri personaggi, figure di contorno, sono stati senza infamia e senza lode.

Ma questo è solo un punto di vista.

Magari questo tipo di teatro, dotto, intellettuale, difficile, per qualche oscura ragione può anche piacere! Certo è che, salvo per la scenografia e qualche altro dettaglio, lo spettacolo ha lasciato nulla o poco. Gli applausi sembravano… di cortesia.  Le domande sul perché si vada a teatro e con quali aspettative, continuavano a provocare risposte che in fondo sono semplici: Capire, immedesimarsi, comunicare, crescere, arricchirsi, distrarsi, godere. Niente di più. Tutto il resto è sovrastruttura.

Norma Viscusi

Norma Viscusi

Pianista. Insegna Musica nella sc. Media Q. Maiorana di Catania. Ha conseguito anche il Magistero di Scienze Religiose presso IRSS San Luca di Catania, Facoltà di teologica di Sicilia. Il suo interesse è poliedrico: musica, arte, cultura, volontariato e giornalismo. Collabora come editorialista, freelance, con diversi periodici e quotidiani. Fra questi Freedom 24, Zona franca, l’informazione, Aetnanet, Newsicilia, l’Alba. Ha pubblicato saggi di letteratura religiosa sulla Scapigliatura, Lo spazio di Dio in Tarchetti in La letteratura e il Sacro, narrativa e teatro, cura di F. D.Tosto, vol. IV ed. ESI, 2016 Napoli e per la collana “Nuova Argileto”, La Scapigliatura. Tra solitudine e trasgressione, Lo spazio di Dio in Tarchetti, Rovani e Dossi. ed. Bastogi, 2019 Roma. Ama dedicarsi in modo particolare a recensioni musicali e teatrali.

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