“Le incompiute smorfie” d Vladimir Di Prima
Un romanzo che richiede la lentezza del lettore per assaporarne la sua anima di vapore
Un romanzo definito thriller, noir, sociale. È certo che non si tratta di un prodotto commerciale, ma di un libro autentico e mal gliene incoglie, direbbe Saramago, a chi ha fretta. Richiede, meritandola, la lentezza del lettore per assaporarne la sua anima di vapore. D’altra parte la letteratura desidera far vivere i respiri delle parole. Ogni definizione suddetta è vera e cerca di etichettare quella che in realtà è una vicenda umana, con le sue sfaccettature, tutte più o meno accettabili. E ogni vicenda umana è anche un viaggio, interiore in primis, dove l’io viaggiante che scava se stesso e dissoda la sua visionaria esistenza può trovarsi o perdersi, essere realtà o mistificazione, diventare un personaggio letterario. Come Mario Pergola, protagonista della terza opera edita dello scrittore catanese Vladimir Di Prima, Le incompiute smorfie (Meligrana Editore). Artista siciliano giunto al culmine del successo, si racconta al Lincoln Center di Manhattan in un’intervista televisiva senza tempi da rispettare e rischio di essere sfumato. Narra la sua vita prima della fama e compone un’autobiografia avvolto in una seduta singolare: labbra rosse fumanti, simbolo di un’intera esistenza, senza le quali è probabile che nulla sarebbe stato di lui e con le quali sublima lo stesso atto di vivere. Le labbra che fumano rappresentano l’ossessione dell’artista, la donna – bocca – fumo, la ricerca spasmodica della sintesi perfetta nel viaggio di quella smorfia che fa una donna con la sua sigaretta, (non una qualsiasi, ma con precise caratteristiche), eterno prologo di ciò che si vuole afferrare, epilogo dove ricomincia la ricerca dell’imprendibile. Cerchio mai chiuso, eppure concentrico ed infinito a se stesso. Insensato se si vuole, come lo è la sua infanzia, vissuta in una casa dove tutte le stanze sono rigorosamente trascurate, tranne il salotto nel rispetto divorante di una facciata borghese di cui sono intrisi i genitori: il terribile papà e l’anaffettiva mamma. È questo l’ambito culturale in cui avviene il primo incontro di Pergola adolescente con la donna fumante, una vicina di casa che scatena gli istinti dell’acqua ancora inespressi del giovanissimo artista. Da quel momento comincia un costante spiare e scoprire guance che si contraggono per espirare fumo e ossigenare desideri. Ma è con padre Nator a Salus, dove Pergola va per curarsi gli occhi, che trova sostanza l’incontro più importante. In lui c’è il mentore, l’alter ego che lo instrada nell’affinare la sua morbosità. Gli insegna a riconoscere i segni distintivi sul volto di una donna che fuma, primo fra tutti l’occhietta, non un’occhiaia ma la parentesi carnale di un universo, l’altare del corpo del vizio che l’occhio caduco del sacerdote cadaverizza con caduca moralità. Un feticismo spinto che è la malattia prodotta da una società miope nel cogliere le fragilità umane. Mario Pergola è un malato sociale come il Gregor Samsa di Kafka lo era nel corpo, destinato anch’egli a non essere compreso. Un uomo solo, lasciato essere nell’indifferenza coltello e ferita al contempo. C’è incompiutezza nella mente di Pergola, a dispetto di una precisa capacità di narrazione che la penna di Di Prima svela lentamente. Lo fa attraverso sì l’autobiografismo, tuttavia senza la rinuncia a un linguaggio, scelta espressiva consapevole di un discorso personale, che si trasforma in immagini, fino ad arrivare a sequenze cinematografiche. Tra dissolvenze e riassestamenti il lettore va dietro a Pergola. Lo fa nel suo registro barocco al quale inavvertitamente si adeguano tutti gli altri personaggi, o meglio “tipi”, costruiti dall’autore seguendo l’idealità weberiana in quel concetto limite che trova l’esempio letterario ne “L’avaro” di Molière. Di questi ne incontra tanti Pergola, dalla famiglia e lungo il suo percorso nel paesaggio etneo, dal cinese per cui lavora alla nipotina Candy, candida e sensuale, una Lolita fumante, rigorosamente di nascosto, fino a Salvatore Bonasirella, restauratore di nani da giardino. Eppure ogni incontro lascia presagire una fuga da se stesso di quest’artista la cui interiorità si confonde sempre più, risulta sempre meno composta e che porta a chiedersi chi sia davvero Mario Pergola e quanto innocuo sia stato il suo cammino nell’inesausto tentativo di afferrare il senso di una smorfia, in uno scavo di malinconia e oscurità che fa interpretare la storia senza farla finire davvero. La risposta è nel finale, duplice e aperto come un quadro di Dalì, nel segno di una scrittura dalla quale svetta il vero talento capace di far continuare la narrazione oltre il silenzio e la fine delle parole.
M. Gabriella Puglisi
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Mar, Dic 2, 2014
Cultura