“Stiffelio” di Verdi al Teatro “Bellini” di Catania
Mistero, “mal de vivre”, inconciliabilità tra sentimento e ragione, tra sentimenti e ragion di stato
Genesi complessa, travaglio lungo e articolato e al parto; segue vita breve e tormentata: questo il quadro clinico di Stiffelio, una grande opera di Giuseppe Verdi, nella quale si ravvisano tutti i temi e le condizioni che furono proprie del Romanticismo: mistero, mal de vivre, inconciliabilità tra sentimento e ragione, tra sentimenti e ragion di stato.
Rappresentata al teatro Massimo “Bellini” di Catania, dal 24 al 31 ottobre, alternando come di precetto due cast, l’opera, proprio per la sua alta portata artistica ed intellettuale, pone non pochi interrogativi circa il mistero in cui è stata avvolta, sparendo dalle scene per oltre cento anni.
Articolati sono i tentativi e le tesi rivolte a ravvisare nel personaggio conflittuale di Stiffelio una matrice storica realista, poiché realista è sia la location (un castello del conte Stankar, sulle rive dello Slazbach, nella vicina Germania), sia il tema luterano del protestantesimo che fa da sfondo integratore alle dinamiche umane che vi interagiscono e che, a tutt’oggi, suggeriscono spunti numerosi di riflessione e dibattito proprio per la loro attualità.
Rappresentata, per la prima volta, al Teatro “Grande” di Trieste, il 16 dicembre del 1850, venne eseguita l’ultima volta a Malaga, per poi riapparire sulle scene un secolo più tardi: il 26 dicembre del 1968, al Teatro “Regio” di Parma.
Il ritrovamento di questo pregevolissimo lavoro è da accreditare alle instancabili ricerche dell’Istituto Nazionale di studi verdiani di Parma, sotto la guida di Pierluigi Petrobelli.
La sua fonte letteraria era un dramma in cinque o sei parti: Le paster, ou l’Evangile et le foyer, di Emil Souvestre ed Eugène Bourgeois.
Le sezioni di Stiffelio rimaneggiate dal librettista Francesco Maria Piave ed elaborate in melodramma in tre atti, e che si ritenevano perdute, sono state poi ritrovate nella custodita biblioteca degli eredi del compositore. Rinvenute nel febbraio del 1992, ritornano alla luce nel 1993 al “Metropolitan” House di New York.
Nella sua breve vita Stiffelio conobbe le resistenze delle censure dei governi della Penisola e soprattutto quelle delle coscienze degli spettatori.
Le ragioni? Tante. Tutte spinose quale che sia il punto di vista da cui le si osserva. Prima fra tutte il tema del luteranesimo proposto ad una cultura immersa nel cattolicesimo.
Stiffelio (il tenore Giorgio Casciarri [recita del 29]) è un pastore protestante: predica bene il perdono, l’indulgenza davanti alle debolezze umane, narra del suo peregrinare la “oppressa la virtude” di giovani e di anziani e ancor più delle donne “sotto il vincolo del coniugale amore”, annuncia la misericordia di Dio ma, davanti alla scoperta dell’adulterio di Lina, sua moglie, imbraccia la spada e chiede vendetta per l’onore leso, spaccandosi in un incolmabile dualismo tra uomo e ministro di Dio.
La debolezza di Lina (la soprano Daniela Schillaci), dovuta alle troppe assenze del marito, impegnato a reclutare proseliti in un clima di persecuzione generale, cede, dopo molte resistenze, alle continue e pressanti tentazioni del nobile Raffaele di Leuthold (Giuseppe Costanzo), infido e assiduo frequentatore della casa del conte Stankar (il baritono Hayato Kamie), vecchio colonnello e padre di Lina.
Il tema del divorzio è la soluzione incruenta cui Stiffelio perviene dopo grandi tormenti e per sforzo titanico di coerenza col suo ruolo di uomo di Dio. Soluzione che Lina, suo malgrado, accetta, ma che la ferisce più dell’insulto, più della legittima rabbia, proprio perché, lei lo ama e il divorzio sembra avere l’amaro sapore del ripudio.
Lei appartiene a quelle vittime che, pur non volendo, hanno subito i ripetuti e subdoli attacchi del tentatore, del molestatore che pur di avere la preda, ricorre ad ogni impietoso ricatto e sotterfugio. Tema quanto mai attuale.
Ma la confessione sacramentale richiesta allo Stiffelio ministro di Dio, spogliato ormai della veste di marito, umanamente debole e gracile, fa appello adesso ad un dialogo che si pone su un altro livello e coinvolge ministro e penitente in una soluzione di misericordia, di perdono e di comprensione che solo in Dio è possibile nella forma catartica.
Tutto ciò appare forte come tema di riflessione, impegnativo nella dimensione spirituale e nella connotazione umana di fede adulta, calata nella temporalità e incarnata nel proprio vissuto.
A questo fa seguito il diritto preteso dal padre-conte Stankar di far giustizia al proprio onore, macchiato dalla infida ospitalità di Raffaele, che aveva osato lungamente attentare la fedeltà e l’irreprensibilità di Lina, ricorrendo anche a metodi infami e che trovano ampia documentazione in quelle parti che, pur non facendo parte dell’opera verdiana, la precedono nel già citato dramma, Paster, ou l’Evangile et le foyer. Raffaele muore trafitto dalla spada di Stankar e il lavacro di sangue ridà vita al cupo rovinare in cui tutti erano precipitati.
Ancora un tema che, se sulla scena riporta ogni cosa nella dimensione della “giustizia fatta”, in realtà, mal si concilia con quella coscienza cristiana che interviene, col suo kerigma, ad annunciar perdono e redenzione, piuttosto che fomentare la mano che si arma e punisce sostituendosi alla giustizia e perché no, alla misericordia divina che può e sa sorprenderci per le possibili soluzioni e interventi riparatori.
Ma infine, tutto trova il suo punto di arrivo. La scena finale vede Stiffelio dietro un pulpito che con voce tremante vi legge: «Allor Gesù rivolto/ al popolo assembrato/ mostrò l’adultera/ ch’era ai suoi piedi e così disse:/ […] Quegli di voi che non peccò/ la prima pietra scagli.»
La parabola narrativa si conclude e da ciò riprende vita un’altra vita. Certamente diversa. Ma tutto ciò, probabilmente, era troppo cupo e serrato all’interno di un melodramma a quel tempo.
Verosimilmente Stiffelio si propose con un carico di tematiche intellettualmente complesse che, se pur concluse a lieto fine sulla scena, non lasciavano retaggi ineludibili negli spettatori. E questo fra musiche, testi e scenografie severe ed austere che non concedevano respiro fino alla fine.
Cosicché quel lontano pubblico, da un canto commosso, coinvolto, rapito, per la bellezza tutta dell’opera, probabilmente tornava però a casa con un fardello nell’anima troppo pesante, perché (sempre probabilmente) troppo realista e perciò, magari rispecchiandosi nei vari personaggi, senza la leggerezza di cui aveva goduto Lina con il perdono, forse ancora con le stesse colpe di Raffaele e l’onore non lavato di Stankar, ma soprattutto senza l’incanto dell’amore, che seppur perdonato e redento, s’era spezzato, profanato nella sua sacralità e privo ormai della sua verginalità. Ecco, era tutto drammaticamente vero.
Tuttavia, Stiffelio rimane davvero una’opera di grande pregio: ricco di poesia il verso, intensi i suoi personaggi e bello anche dal punto di vista strettamente musicale.
La musica, segue e sostiene colpo dopo colpo, le intensità richieste dalla trama e dai colpi di scena, articolandosi in duetti, settimini, trii con un gioco melodico alternato di grande effetto.
Anche il pubblico del 29 ottobre sera ha applaudito soddisfatto per un duplice motivo: il ritorno sulla scena di una così bella opera e per una recita di gran livello, valida in ogni sua parte, per il contributo di ciascuno e di alcuni in particolare: per esempio, Hayato Kamie, Mario Luperi, nelle vesti di Jorg, certamente Giorgio Casciarri, anche se regina indiscussa della scena è stata Daniela Schillaci. Grande artista, grande interprete e padrona di una tecnica canora di alto livello, capace di strappare al pubblico ripetuti momenti di autentica commozione e rapimento.
Nessun dubbio sul Direttore, Antonino Manuli e sulle prestazioni dell’orchestra sinfonica del Bellini, consolidata ormai da gran tempo su un piano di più che meritata rispettabilità, e del coro, anch’esso di notevole livello, diretto da Tiziana Carlini.
Una nota di merito in questa recita però sembra doversi assegnare ad un ottavino che spicca: brillante, vivace, incisivo, che si tesse e intreccia in modo simbiotico con la voce del soprano; si fonde con essa all’unisono ed è difficile distinguere l’una dall’altra poiché si sostengono reciprocamente, conferendo al prodotto finale attimi di estatica meraviglia.
Gli altri attori partecipi del primo e secondo cast: Salvatore D’Agata (Federico di Frengel), Loredana Rita Megna (Dorotea), Luca Iacono (Fritz), Marina La Placa (Una cameriera). Il primo cast ha invece avuto nel ruolo dei protagonisti: Roberto Iuliano (Stiffelio), Dimitra Theodossiou (lina) e Giuseppe Altomare (Stankar).
Ricordiamo: Renzo Milan (scenografia, sobria ma ad effetto suggestivo), Salvatore da Campo (Luci) e l’E. A. R. del Teatro Massimo “Bellini” che ha fornito l’allestimento scenico, l’orchestra e il coro, tutti elementi di alta espressione dell’opera rappresentata.
Quindi meritata gloria al regista Ezio Donato che è riuscito, con grande sapienza, a rendere palpabili i temi, i toni, le atmosfere e le scene proprie del tempo; che può certamente annoverare Stiffelio, tra quei lavori di cui andare fiero.
Norma Viscusi
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Lun, Nov 18, 2013
Primo Piano, Spettacolo