In Italia la religiosità cattolica è carente
In altre confessioni, i fedeli osservano con orgoglio i precetti e le pratiche
Quando la religione diventa spettacolo, inevitabilmente si trasforma in occasione di sprechi e disuguaglianze sociali, mentre i bisognosi stanno a guardare con amarezza.
Premesso che la stragrande maggioranza del popolo italiano si dichiara cattolica, non si può non rilevare che in Italia — con l’eccezione di pochi casi e aree ben circoscritte — nonostante la contiguità con la Santa Sede la vera religiosità è carente. Infatti, mentre in altre confessioni religiose i seguaci ci tengono ad essere e dimostrarsi orgogliosamente fedeli nell’osservanza dei precetti e delle pratiche, dell’altruismo, della beneficenza e della condivisione (tutte cose che amalgamano e caratterizzano le rispettive nazioni), al contrario molti cattolici sono orgogliosi di dimostrarsi menefreghisti e trasgressivi.
Esempio di formalismo religioso è lo svolgimento delle feste. In Italia, se nei paesi, frazioni e città del Sud le feste della Madonna e dei santi si risolvono in folcloristiche e spettacolari processioni quasi settimanali, con rumorose esplosioni di bombe, in quelli del Nord esse hanno come veri obiettivi sagre a base di scorpacciate di salsicce, abbondanti libagioni, gare sportive, tombole, balli e spettacoli vari.
L’allora card. Joseph Ratzinger, quand’era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, disse: “Abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere la religione interessante sulla scia di sciocchezze di moda e di massime morali e seducenti.” E show in inglese significa proprio “spettacolo”. Il cardinale si riferiva alla nuova liturgia; ma quest’espressione ci può servire per valutare ciò che si vede all’interno ed all’esterno degli edifici di culto.
Basta entrare in una chiesa durante la celebrazione d’un matrimonio per notare ch’essa si è trasformata in un teatro o in una postazione cinematografica, con attori gli sposi, di cui la sposa vestita in maniera indegna d’un luogo sacro, del resto come molte delle donne invitate, fra un rutilare di vestiari cangianti, miscugli maleodoranti di lacche, creme, pitture e profumi, fari abbaglianti, orchestre e musiche profane, armeggiare di microfoni, telecamere e telefonini, continuo scattare di fotografie e scrosci d’applausi: una parata di bellezze più o meno finte, di lustrini e di sprechi, una fiera della vanità ammessa da moltissimi sacerdoti, nonostante che sia lontano o assente il senso del sacro, dato che chi entra in una chiesa, anche se per assistere ad un matrimonio, dovrebbe entrare per pregare e non per fare spettacolo, cioè mostra di sé.
Esempio di spreco esagerato, oltre che di vanità, sono poi gli abiti che molte donne vogliono “nuovi” (appositamente comprati) ad ogni matrimonio a cui sono invitate, ritenendo già “vecchi” quelli comprati per il precedente matrimonio e adoperati quella sola volta, magari poco tempo prima, dato che ci tengono ad apparire diverse dalla volta scorsa, e cioè all’ultimo grido della moda, in modo che la gente guardi la bellezza dell’abito e non quella della persona che lo indossa. E pensare che Dante in Par. XV 100-102 aveva biasimato l’uso dei vestiari e ornamenti che attirano l’attenzione più della persona (“che fosse a veder più che la persona”)!
A proposito di sprechi, nei matrimoni sono deplorevoli anche il faraonico addobbo delle chiese e il lancio del riso, che invece potrebbe essere utilizzato per i bisognosi: al riguardo si è arrivati al punto che i parenti degli sposi, col beneplacito dei parroci, collocano davanti alle chiese sacchi di riso per gl’invitati, sprecando senza necessità e senza utilità un prezioso alimento, lordando la strada e procurando pericoli di scivolamento. E per alcuni sposi all’esterno ci sono anche stupidi scherzi, carrozze a cavalli, bande e tamburi, sbandieratori, castelli illuminati e fuochi d’artificio: tutte cose che trasformano un sacramento in una carnevalata.
C’è da aggiungere che al Sud molti coniugi, magari malandati per l’età e quasi sempre sollecitati dai figli, festeggiano in modo faraonico anche le nozze d’argento, d’oro o di diamante, ripetendo la cerimonia religiosa delle vere nozze di molti anni prima, con stomachevole messinscena comprendente le immancabili riprese cine-fotografiche e con evidente spreco di denaro, fatto col consenso dei sacerdoti celebranti.
Talora la preoccupazione di fidanzati e genitori è quella di realizzare non la celebrazione di un sacramento ma una solenne messinscena. Alcuni fidanzati conviventi, anche se con figli, giustificano il rifiuto o il rinvio della celebrazione del matrimonio asserendo che non hanno il denaro necessario ad affrontare le enormi spese che una celebrazione così realizzata comporta; e ignorano che, se davvero volessero sposarsi, basterebbe che, dopo l’espletamento delle pratiche burocratiche, si recassero in chiesa o al municipio semplicemente con due testimoni: e il matrimonio sarebbe bell’e fatto con spese nulle o irrisorie, anche se senza messinscena. E perciò, poiché — come dice il Foscolo — “dal dì che nozze e tribunali ed are” hanno reso civili gli uomini, che prima erano come le bestie (Dei sepolcri, 91), chi preferisce il concubinato al matrimonio, anziché addurre scuse inverosimili, dovrebbe dichiarare onestamente che in realtà non crede nel matrimonio né come sacramento né come istituzione civile.
Sprechi ci sono anche nei battesimi, prime comunioni e cresime: al Sud le bambine vengono vestite non con una semplice tunica bianca, uguale per tutti, maschi e femmine, ma come vere e proprie spose, con abiti bianchi, veli, trine, pizzi e merletti costosissimi. E non si capisce come mai i sacerdoti consentono tutto ciò, in cui spesso — oltre al lusso e all’indecenza — risalta la disparità economica delle famiglie.
I servizi cine-fotografici (che fra l’altro costano migliaia d’euro) dovrebbero essere ridotti al minimo, magari tornare ad essere costituiti come una volta da qualche foto-ricordo e in ogni caso non essere permessi all’interno delle chiese, ma all’esterno; mentre il riso dovrebbe essere sostituito — come altrove — da petali di fiori, coriandoli o bolle di sapone. Inoltre si dovrebbe convincere gli sposi a non organizzare pranzi luculliani, in cui ogni invitato/a deve ingurgitare da solo/a tanto cibo quanto potrebbe bastare a sfamare una dozzina di quegli extracomunitari che invece vengono respinti anche quando cercano semplicemente di che sopravvivere.
Ma anche durante le normali messe domenicali entrano in chiesa e fanno la comunione donne abbigliate in modo sfarzoso e indecente: e ciò, senza che da molti sacerdoti sia loro vietato l’ingresso al fine d’impedire offese al luogo sacro, nonché senza che sia loro negata la comunione.
Abnorme è poi lo scrosciare degli applausi in chiesa durante i funerali, specialmente nei casi di morti per assassinio o disgrazie varie: gli applausi fino a qualche tempo fa erano riservati agli attori quando escono di scena, e quindi anche nei loro funerali che di fatto rappresentano l’uscita definitiva dalle scene. Applaudendo abitualmente ai funerali si dimentica che ubi mors ibi solum oratio et silentium licent: dove c’è la morte lì sono leciti soltanto il silenzio e la preghiera.
E dall’altra parte non si può non rilevare la pomposità di certe celebrazioni e l’appariscenza di certi paramenti liturgici, che sembrano non confacenti alla semplicità evangelica, in una Chiesa che dovrebbe dare l’esempio di tale semplicità. Inoltre parecchi celebranti, non soltanto tengono prolisse e reboanti omelie, a volte non attinenti alla Scrittura e nei funerali ridotte semplicemente ad elogi personali, ma svincolati dalla rigidità del latino (imperante per secoli), ora celebrano a ruota libera e si permettono con disinvoltura di cambiare parecchie parole del rito (e per rito s’intende il testo stampato nei messali e in altri rituali approvati dalle competenti autorità religiose) e d’inserire frequentemente in esso frasi e discorsi estemporanei, “gonfiando” e prolungando più o meno notevolmente la celebrazione. Infatti una delle conseguenze dell’abolizione del latino nella liturgia è che tali celebranti, usando la lingua corrente (di tutti i giorni) e non più quella classica codificata, modificano il rito sotto l’impulso della creatività personale e secondo le proprie capacità inventive, nonostante che ciò sia vietato dalle norme vigenti (cfr. art. 22, § 3, della costituzione “De Sacra liturgia” del Concilio Vaticano II), tanto che fra un celebrante e un altro si notano numerose varianti espressive, col risultato che qualche celebrazione non è più un rito (che per essere tale presuppone identità di celebrazione fra tutti i celebranti) e, non avendo più limiti tassativi, può durare all’infinito.
Per evitare disparità, battesimi, cresime, matrimoni e funerali dovrebbero avere sempre le stesse modalità di svolgimento, d’addobbo e d’illuminazione delle chiese, e non dovrebbero comportare tariffe da pagare, ma soltanto libere offerte, possibili a tutti; mentre paramenti, celebrazioni e omelie dovrebbero essere ridimensionati.
Ed è probabile che con l’avvento del papa Francesco al soglio pontificio alcune cose di quanto sopra esposto possano cambiare.
Carmelo Ciccia
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Lun, Apr 29, 2013
Cultura&Società, Primo Piano