“Tele bianche, bianche pagine” di Carla Amirante Romagnosi
Il passaggio dalle tele (pittura) alle pagine (poesia) per evidenziarne il rapporto
Dopo ciò che ha scritto il critico triestino Fabio Russo nella sua accurata prefazione — che è un articolato saggio (intitolato Orizzonte e mistero) su quest’autrice, della quale ha analizzato e commentato tutte le composizioni — è difficile aggiungere altro. Ad ogni modo, anche per favorire la conoscenza di lei, presentiamo qui il suo primo libro di liriche.
L’affermata pittrice Carla Amirante Romagnosi, romana ma residente a Palermo, oltre che per la sua attività artistica è nota per la sua partecipazione al Centro Internazionale di Studi sul Mito di Palermo, di cui lo stesso Russo fa parte; ma poi, ispirandosi al mito, s’è data anche alla poesia, pubblicando dapprima questa silloge Tele bianche, bianche pagine (Il bandolo, Palermo, 2010, pp. 72, € 11) e dopo l’altra più esplicita Nuvole e miti (Saladino, Palermo, 2012, pp. 64, € 8).
Già il titolo Tele bianche, bianche pagine nella sua formulazione a chiasmo delinea il passaggio dalle tele (pittura) alle pagine (poesia), mettendone in evidenza lo stretto rapporto nel campo delle arti: e in questo volumetto alle poesie s’alternano i disegni della stessa autrice, confermandone la duplice abilità. La silloge è dedicata con umiltà a Giacomo Leopardi, «vetta inarrivabile di poesia», un autore caro all’autrice — oltre che al prefatore — della cui poesia e del cui pensiero (orizzonte, infinito, vuoto, annegamento, nulla…) s’avverte in essa la presenza, unitamente a quella d’altri noti autori.
È evidente che il motivo del mito è pregnante in quest’opera, la quale prende le mosse proprio da esso; e, dopo le spiegazioni del caso, in particolare per quanto riguarda il suddetto passaggio dalla pittura alla poesia, vi sono rievocati vari miti classici, fra cui quelli di Demetra, di Pan, di Persefone e del titanico Telamone d’Agrigento; ma a questi, a conclusione della silloge stessa, è aggiunto il mito cristiano denominato “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, fornito dall’evangelista Giovanni (Apoc. VI 2-8) e compendiato nell’immagine della Morte che cavalca il suo cavallo brandendo una falce: «Esso era verde e scheletrito / perché alla vista ognuno / subito ad un cadavere / pensasse e preso fosse / da mortale spavento.» (p. 66).
E, poiché la parola mito significa ciò che si racconta, leggenda, favola, in queste composizioni l’autrice a volte sembra tornare ad un passato remoto: allora il suo linguaggio — solitamente bene scandito e spesso musicale, grazie al taglio dei versi, alle assonanze e ad altri espedienti (chiasmi, iperbati, anafore, ecc.) — diventa quasi prosastico e assume connotazioni dell’infanzia o per l’infanzia, producendo una poesia gnomica in cui l’autrice racconta e spiega episodi intangibili, aggiungendo ad essi esortazioni di matrice cristiana e domande varie, di cui la più importante è quella che assilla tutti gli uomini: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e dove va l’universo, la cui misteriosa nascita è essa stessa un mito.
Perciò, dopo pessimistiche riflessioni in cui parla di «vuoto»che scende in lei simile a morte, di «buio assoluto» che l’avvolge, d’«abisso infinito» che l’attira nel gorgo e del «nulla totale» che la fa sparire (p. 34), alle domande «Perché l’universo?» e «Perché c’è la vita? La morte?» l’autrice risponde laconicamente: «La vita, l’aldilà, l’universo, / per me, tutto è mistero.» (pp. 42-43).
In definitiva, questo è un lavoro di scavo: l’autrice fa quasi un esame di coscienza ed esprime osservazioni, stupori e dubbi che non sono soltanto i suoi. C’è nella silloge un accostarsi alle tematiche esistenziali più ricorrenti, che l’autrice espone con semplicità e chiarezza, in un dettato scorrevole e corretto, certamente favorito dalla buona conoscenza dei nostri migliori poeti.
E questo riuscito esordio fa bene sperare per eventuali sue future produzioni in versi.
Carmelo Ciccia
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Mar, Apr 23, 2013
Cultura