Ricordo di Gino Raya, a 25 anni dalla sua morte
Vidi Raya, l’ultima volta, nella primavera del 1986. Andai a trovarlo con Gisuava Zawadzka nella sua residenza romana di viale di Villa Pamhili, 199. Come al solito, mi accolse affettuosamente e ci invitò a pranzo.
Anche in quell’occasione non mancò di farmi capire di averlo deluso culturalmente: non ero stato mai (attratto dalla strada e dal viaggio ) costante e sistematico negli studi, come altri suoi prediletti: Pasquale Licciardello, Francesco Foti, Domenico Cicciò, Carmelo Ciccia, Paolo Anelli e tanti tanti fiori di intellettuali che si riconobbero (con qualche incipiente differenza Carmelo Viola) nello studioso e filosofo del famismo, nell’intellettuale disorganico che non ebbe mai peli sulla lingua, anche quando pagò con l’ostracismo della cultura pontificante
Nei momenti di emarginazione culturale (Giuseppe Petronio ne fu il profondo “conoscitore”, ma non diremo perché) però furono tanti gli studiosi che gli furono onestamente e cordialmente vicino: Emilio Cecchi, Michele Federico Sciacca, Carmelo Ottaviano, Virgilio Titone, Antonio Mazzarino, Luigi Volpicelli, Antonio Aniante, Giulio Cogni, Gemma Licini, Maria Bellonci, Paolo Mario Sipala, Alfred Alexander, Ana Joachim e via seguitando.
Stava rifinendo Verga e gli avvocati, sua penultima fatica, e lavorando all’ultimo suo volume La vita di Giovanni verga. Entrambi i lavori furono pubblicati postumi dalla Herder: il primo nel 1988 avviato ai tipi dallo stesso autore; il secondo nel 1990 su iniziativa di Antonio Mazzarino, l’illustre latinista del ‘900, che ne fu anche prefatore.
Qualche mese dopo, mi invitò al suo 80° festeggiato a Valverde il 25 giugno su iniziativa del poeta Angelo Scandurra suo grande, almeno allora, estimatore, ma, con mio grande dispiacere, non potei essere presente: mi trovavo già (se il ricordo mi accompagna bene) a Gorizia come Commissario agli esami di Maturità.
Ricorrendo, questo 2 dicembre (1), il 20° della sua dipartita, con Licciardello, abbiamo pensato di ricordare il Comune Maestro con interventi già pubblicati, rivisitati o nuovi; ne seguiranno altri sui prossimi numeri del’Alba.
P.P.
(1) da l’Alba, “Speciale dicembre 2007”
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Le tesi più significative del pensiero d’un nostro Amico, Studioso e Maestro(*)
Il 2 dicembre 1987 ha privato la cultura del contributo di un insigne studioso, di un intellettuale disorganico: Gino Raya, l’ideologo antideologo, l’autore di La Fame, filosofia senza maiscuole, Roma 1961.
Prima di teorizzare il famismo, G. Raya era noto, soprattutto, come critico letterario, autore della storia delRomanzo (Milano, Vallardi, 1950), editore delle Lettere d’amore di Giovanni Verga e di molti scritti sul grande conterraneo.
La Fame, per le sue scottanti tesi, ha fatto tuonare tutte le tribune della “Cultura ufficiale” decretandone l’ostracismo. Intellettuali come Emilio Cecchi e Giuseppe Prezzolini hanno però riconosciuto i giusti meriti al filosofo di Mineo.
Ricordiamo, ora, i concetti più significativi del suo pensiero. G. Raya, procedendo in una analisi molto radicale, dimostra che la fame, del grado specificamente biologico, si può trasporre, si può elevare (senza bisogno di interventi trascendenti) ai gradi cosiddetti morali, spirituali, civili, i quali, dalle precedenti culture, sono stati spiegati col Totem, coll’Io trascendentale, coll’atto puro, col cogito o con altre maiuscole filosofico-religiose. «Da che mondo è mondo – scrive il Raya – non mancano certamente i riconoscimenti sull’importanza dell’alimentazione sul destino umano». Questa inizierebbe con Aristotele e continua con Leonardo Feuerbach, Ràmon Turro, Verga, Freud, Gino Ferretti. Scriveva, un secolo fa, il Feuerbach: «I cibi si trasformano in sangue, il sangue in cuore e cervello, in materia di sentimento e di pensieri: l’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento? Se volete far migliore il popolo, in luogo di declamazioni contro il peccato, dategli un’alimentazione migliore. L’uomo è ciò che mangia». Il Raya però si differenzia in maniera assoluta e originale dai suoi precursori in quanto va più a fondo nell’indagine e fa della fame il “primum movens” di ogni attività umana. Così che – per fare un esempio – le attività psichiche, ridotte dal Freud alla libido e dal Ferretti al corpo, vengono ridotte dal Nostro alla “fame”, ch’è sinonimo di vita. La fame – concepita dal Raya come una piattaforma biologica, comune sia per l’ameba che per l’uomo – creerebbe, attraverso il suo potenziamento fagico, la differenziazione nella scala animale; possiamo quindi dire che le distinzioni fra gli esseri più microscopici e l’uomo risiedono solo nella tecnica trofica; per cui, a seconda i vari livelli della trasposizione fagica, si distinguerebbe fra istinto, sensibilità, intelligenza, cultura, ideale, etc. Il libro del Raya, tenendo conto del potenziamento fagico, si divide in cinque capitoli: “La realtà”; “La società”; “L’ideale”; “La cultura”; “L’arte”. Questi capitoli, a loro volta, si diramano in paragrafi che delucidano l’argomento con un metodo scientifico rispetto alle astratte elucubrazioni tradizionali: fondato cioè, sulla cronaca nera.
Una delle tesi più sconvolgenti della Fame è la riduzione dell’amore all’antropofagia (non per nulla un altro libro rayano è intitolato L’amore come antropofagia). «L’amore – scrive il Raya – è fame, la più possente diramazione della fame che un corpo possa avvertire. E – subito dopo che antropofagia – fame dell’altro sesso; e come la fame indiscriminata diventa appetito se si rivolge a un determinato cibo, così la sessualità diventa amore se si concentra su un determinato esponente dell’altro sesso, o anche dello stesso sesso in determinate circostanze». Cinismo? Tutt’altro! Il Raya continua: «C’è dunque un amore che non si ferma alla sola carne, che non può durare sino alla più tarda vecchiezza? Certo che c’è: come il cibarsi di latte, pane e patate può diventare cibarsi di scienze, così l’antropofagia sessuale può trasporsi in maniera indefinita», e più avanti: «Una controprova chiarissima dell’amore come antropofagia è il pudore, istintivo sentimento di difesa contro chi si avvicina al nostro corpo con brama sessuale. Si tratta d’un sentimento tutt’altro che sofisticato, avvertito in tutti i tempi e presso tutti i popoli, e giustamente tutelato da molti codici. I Romani divinizzavano la Pudicizia […] e la difesa sarà sempre la mano che copre o ripara, che si fa foglia di fico o vestito. E il vestito o le lenzuola diverranno come un ampliamento dello stesso corpo, sì che nessuna disciplina di collettività potrà mai sopprimere la riluttanza o il disgusto per certe promiscuità, il bisogno di farsi avvicinare-mangiare non dal primo venuto, ma da chi riscuota il nostro consenso, da chi vinca davvero il nostro pudore».
Tra le “maiuscole” sgonfiate dal famismo non può mancare, naturalmente la libertà. La natura umana,«volente o nolente, deve fare i conti con altro da lei: ogni rapporto è condizionamento, ogni condizione è il contrario di libertà». Ma scendendo dall’assoluto al relativo, dall’utopia-bugia alla realtà, la libertà cosa significherebbe? «Significherà, se diversi cibi mi attirano, scegliermene uno da me e reagire a chi me ne imponga un altro; mangiare dove e quando con chi mi pare». E allora, l’Assoluto cos’è? E’ una presunzione, una forzatura del relativo, una volontà di dominio in nome di astratti valori: la Patria, il Diritto, la Giustizia, la Religione, ecc. Infatti, quante volte ciò che è stato affermato in nome dell’Assoluto «un’ora dopo o un secolo dopo» non ha grondato di «errori» o «orrori»? «Le religioni, che sono particolarmente leste a legiferare sub specie aeternitatis sono anche tanto facili a suadere tantum malorum, a sacrificare Ifigenia e crocifiggere Cristo, a sterminare infedeli e fedeli».
Una coloritura, ed una carica veramente rivoluzionaria ha il capitolo sull’arte, anch’esso successivamente sviluppato in un volume a parte: L’arte come danza. L’arte – concepita dai filosofi togati come qualche cosa di avulso dal corpo – è per il Raya una proiezione del ritmo biologico umano: «Il ritmo regge le forme del mondo e delle cellule, dai protozoi all’uomo e a tutte le derivazioni trofiche e mentali dell’unica fame dell’uomo. Ogni azione umana è ritmata sulla tensione e la distenzione». Così l’arte viene concepita come danza, ed è «Tanto più completa quanto più tutto il corpo vi partecipa».
Luigi Volpicelli, pur non condividendo le tesi del Raya, scriveva nella sua prefazione alla Fame: «Che tesi del genere debbano suscitare perplessità o furori è scontato: così è avvenuto ogni qualvolta ci si è sottoposti a privilegi di qualsiasi sorta; ma che, ad una riflessione più pacata, i principi di Raya, pur nella loro indubbia originalità, si possano ricollegare alle più avanzate battaglie antimetafisiche, dal cristianesimo al marxismo, ed operare in tal senso, è quello che staremo a vedere». La gloria? «Ai posteri l’ardua sentenza».
Pino Pesce
(*) Ricordo di Gino Raya nel secondo anniversario della sua morte, La Gazzetta di Noto, febbraio/ marzo 1990
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Mar, Apr 16, 2013
Cultura