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Gerardo Sangiorgio, un resistente che non si piegò

Mer, Apr 10, 2013

Cultura, Cultura&Società, Informazione

Attitudini, passioni, successi e attestati di benemerenze lo testimoniano

Gerardo Sangiorgio è un italiano che conobbe l’inferno dei lager nazisti, un resistente che non barattò la propria coscienza col personale benessere, che non tradì mai ideali e convinzioni per amore del suo particulare guicciardiniano: un uomo, insomma, che merita il rispetto e l’ammirazione che la coerenza e l’eroismo, di per sé, reclamano. Se poi, a questa testimonianza di coraggio e di fede ideologica si aggiunge il bisogno di ricordare e immortalare nella scrittura quella fase-culmine della propria esistenza, ben vengano queste memorie raccolte dagli eredi: un di più che i lettori non mancheranno di apprezzare. Né il bottino dei meriti si chiude qui: le note biografiche brillano di attitudini, passioni, successi e attestati di benemerenze. Eccone il minimale assaggio compatibile con le dimensioni forzatamente limitate di questo “rendiconto”, del resto preceduto da ben più autorevoli testimonianze e interventi valutativi. Nasce il 20/5/’21, da un «maresciallo dei carabinieri a cavallo», supera bene l’avventura scolastica, dalle elementari al liceo classico; ha appena cominciato l’esperienza universitaria quando viene chiamato al servizio militare e assegnato ai reparti dei finti volontari; tra una vicenda e l’altra (malattia compresa) finisce prigioniero dei tedeschi per il rifiuto di aderire alla tragicamente farsesca Repubblica di Salò. Lo salvano, dal lager e successive camere a gas, 800 grammi di peso corporeo: quanto bastava perché fosse risparmiato e inviato nei campi di lavoro. Catturato nella notte tra l’8 e il 9 settembre del 1943, venne liberato nella primavera del ’45. Ritorna quindi in Italia e riprende gli studi. Laureato in lettere, comincia ad insegnare subito «portando nelle aule la sua esperienza di vita, rendendo testimonianza» davanti ai giovani studenti, sugli «ideali di libertà, di pace, di amore verso gli ultimi». Le sofferenze patite non riescono a intaccarne «l’umiltà e la mitezza», virtù che ornano pure il racconto del coraggio mostrato nel «sacrificare gli ‘anni più belli’e il ‘migliore ingegno’ per la causa giusta, contro ogni forma di oppressione e di barbarie». L’apologetica delle note biografiche non langue «per manco di possa», ma l’economia del nostro incontro ci impone salti e strozzature. Magari non fino al punto da ignorare i principali riconoscimenti del suo valore di educatore, campione di cultura letteraria, compositore di versi apprezzati e variamente premiati. Tutto bene, tutto degno di rilievo in una dettagliata biografia, ma qui in una forzata avarizia di spazio, ci scuote di più l’avventura di guerra e relativa prigionia in Germania, effetti del suo rifiuto alla vergogna di Salò, e garanzia di avventure drammatiche al tempo dello sbarco alleato nei territori dell’Asse. Internato nel campo di concentramento di Bonn, fu messo a lavorare in una fabbrica di Duisdorf a smerigliare minuscoli oggetti. Lavoretto facile? No, spiega l’autore di queste affascinanti memorie: si trattava di un “lavoro pericoloso, in quanto si dovevano allestire per la sera pezzi fino a un numero impossibile”, dato anche lo stato di denutrizione dei prigionieri. Uno sbocco di rabbia teutonica avrebbe potuto chiudere l’avventura sospensiva dei prigionieri. Non accadde, ma l’orlo del baratro si presentò più volte a quella carne nuda di difese. Specialmente quando i bombardieri anglo-americani, dopo lo sbarco in Normandia, moltiplicarono le incursioni, e le connesse  distruzioni di strutture varie, comprese le fabbriche civili. A tentar di proteggere le quali i miseri schiavi di guerra venivano impiegati in lavori a sempre più alto rischio, come la costruzione di «un immenso serbatoio d’acqua» contro l’eventuale incendio della fabbrica esposta alle bombe. Annota l’autore: «qualcuno ne riportò una gamba fracassata, perché si operava con gallerie sempre più in basso».

Un tratto dell’indole onesta di questo prigioniero di guerra sui generis è la sua capacità di riconoscere anche qualche virtù del poco amabile nemico. Ecco un tipico episodio che il memorialista d’occasione vuole segnalare perché «si sappia che qualche raro atto di bontà si verificò anche da parte dei tedeschi»: un sorvegliante gli fa segno che può riempire di ghiotte patate lesse alcune gavette, «prezioso supplemento alla scarsissima alimentazione». E vi era pure, fra gli operai tedeschi, l’uomo di cuore che, furtivamente, toglieva la “trasparenza” alla troppo sottile fettina di pane sovrapponendole, per così dire, una seconda fetta. Ma ora non accomodiamoci nel conforto della bontà diffusa: un caso opposto segue, infatti, nelle Memorie, subito dietro questa candela di speranza. Un bestione di sorvegliante massacrò due badogliani “ladri” di poche patate: al termine dell’“operazione” il pavimento della baracca era pieno di sangue. Confortava i nostri prigionieri un’originale “voce della Patria”, cioè, «il cannoneggiamento degli Alleati» contro le ostinate basi naziste ancora lontane dal buon senso di una resa che avrebbe risparmiate vite umane destinate, invece, a un sadico macello produttore di vedove e  bambini orfani.

Dice la biografia del Nostro: «Le sue liriche, in cui si manifesta lo spirito di fine cesellatore della lingua sono inserite in prestigiose antologie», come quella intitolata all’Europa, e gli hanno conquistato persino un elogio diretto «del presidente della Repubblica». Sorvoliamo, con dispiacere, su altri attestati di stima, ché lo spazio recensorio ha già superato quello compatibile. Meglio un cenno (anche di galanteria!) all’ennesimo parto lirico dedicato «alla futura moglie, Maria Cuscunà». Il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età non frenò la passione letteraria, per lo più lirica, del versatile testimone. Né frenò l’attività sociale e correlati incontri e scambi di prodotti letterari tra colleghi e amici. Scrive il biografo: «Nel 1979 fu collocato in pensione ma continuò con conferenze e dibattiti il suo impegno culturale ed etico nella diffusione dei più autentici valori umani e religiosi». E qui, ecco un’accoppiata aggettivale che invita alla riflessione. Ma, intanto, accompagniamo il brav’uomo all’ultimo approdo, quello che Aspetta noi tutti, con prevedibile precedenza per noi vecchietti. Le note biografiche precisano: «Morì improvvisamente nel pomeriggio del 4 marzo 1993, presso l’ospedale di Biancavilla, dove era stato trasportato d’urgenza». Ovvio che ai funerali partecipassero «autorità, amici ed ex alunni per l’estremo saluto al Maestro di vita e all’illustre letterato». Fra le onorificenze avute dal  defunto ci sono: «Croce al merito di guerra», un distintivo di «Volontario della Libertà» consegnati, dal Presidente Pertini (1984). Altro distintivo gli venne dal ministro Spadolini, come «Combattente per la libertà d’Italia». Si legge tra le note biografiche: «Quando l’algente verno… è un’antologia di scritti che comprende parte della vasta produzione in versi e in prosa, curata sugli autografi in possesso degli eredi da esperti. Dalla lettura si evince subito lo spessore di un apprezzato latinista e profondo conoscitore di Dante». Che l’amore per il divin Poeta l’abbia indotto a memorizzare l’intera Divina Commedia sta scritto tra le note di cui sopra: noi non mettiamo lingua in così temeraria ambizione. E siccome nelle suddette note si esalta la sua «profonda fede in Dio», fonte della sua resistenza alle privazioni del lager, noi (pluralis modestiae) sommessamente chiederemmo: venne mai il dubbio, a questo ammirevole eroe, che il presunto Onnipotente celeste avrebbe potuto fulminare i boia nazisti anziché lasciarli liberi di macellare milioni di sue creature? E che attribuire la propria salvezza al Suddetto implica che per il Nominato una vita umana ne può valere milioni? Ancora (ma non si finirebbe mai!): ha idea di quanti sacrifici sono costati all’umanità le varie religioni sparse nel tempo e nello spazio del nostro pianeta, quest’ «atomo opaco del male»? Nella gloriosa Cartagine al dio Moloch si sacrificavano teneri bambini, che venivano buttati vivi nelle fauci del dio-mostro, cioè in una bocca-fornace sempre accesa. Quando la Città-Stato era in guerra, quella mostruosa offerta veniva accresciuta: immaginarsi quanti teneri innocenti furono sacrificati durante le Guerre puniche! Che faceva il dio cristiano? Si godeva lo spettacolo? Il colmo del candore  credente è in questa formula: «Non si muove foglia che dio non voglia». Avesse un minimo di coerenza logica il credente dovrebbe convenire che dai tempi di Roma e Cartagine il mattatoio per le vittime religiose non ha smesso di funzionare con questo presunto consenso divino: in varie parti del mondo si praticano ancora sacrifici umani. E giacché ci siamo, inviterei i credenti a leggere il capolavoro di Flaubert, Salambò. E, meglio ancora, il pamphlet di  Christopher Hitchens, Dio non è grande, che mostra, con largo puntello di  esempi, «Come la religione avvelena ogni cosa». Ma c’è un altro saggio-confessione sul difficile tema, quello di uno psicanalista, Tilmann Moser, che non esita a intitolare le sue confessioni con questo squillo: Avvelenato da Dio (Feltrinelli). E c’è di meglio, come i libri del versatile matematico Piergiorgio Odifreddi, perché non possiamo essere cristiani, (e meno che mai cattolici); al quale si aggiunge quell’analisi rigorosa della realtà controllabile contro le pretese del dogma che s’intitola Caro Papa, ti scrivo (ed. Mondadori).

Ma per non chiudere con questo non licet (certo non gradito ai credenti) segnalerei fra le migliori composizioni in versi del versatile eroe e apprezzato docente la poesia ispirata da Un pezzo di pane calpestato,  l’ennesima occasione per rivivere quel tremendo passato: (…): «Corsero al ricordo/ la fame e la sferza del tiranno, / e l’unico sogno che eri tu/ nei giorni dei lager quando alle albe non seguiva il sole/ e i tramonti erano senza rosso di speranza.»

Pasquale Licciardello

Pasquale Licciardello

Filosofo, saggista, critico letterario, poeta. Già docente di Filosofia, ha collaborato, sin dal suo nascere, a Biologia Culturale, diretta da Gino Raya. Fra le tante testate, cui ha collaborato, ricordiamo La Sicilia (terza pagina), Netum, La Gazzetta di Noto, l’Alba/ArteCulturaSocietà. Di quest’ultima testata è stato giornalista culturale sin dall’anno di nascita: 2005. E’ l’erede culturale per eccellenza di Raya. Della stretta aderenza al Maestro, ricordiamo: Il famismo nella cultura contemporanea, Roma 1974; delle opere letterarie: La grande assenza, Firenze 1993.

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