“Due” di Irène Némirovsky
Fruscii di una gioventù che sopravvive al di là di una trincea nell’anima
Il 27 gennaio 1945 venivano abbattuti i cancelli di Auschwitz e dell’orrore sottaciuto della Shoà. In quell’orrore morì nel 1942 la scrittrice Irène Némirovsky. Ebrea apolide, e per certi versi anomala, la ricordiamo, nel senso etimologico del termine, ossia rimettendo al cuore la memoria, attraverso il suo secondo romanzo Due pubblicato nel 1939, edito da Adelphi nel 2012. Un romanzo intenso e complesso in cui l’autrice oltre ad affrescare il cosmo di due famiglie, i Carmontel e i Segrè, emblemi di una borghesia degli anni ’20 che cerca guizzi di anticonformismo, destinati ad affievolirsi nel tempo, di cuore narra nelle sue sfaccettature più intime e reali.
Si apre Due esattamente come un cancello, attraverso una primavera tetra, la prima dopo la grande guerra. Quasi si sentono fruscii di una gioventù sopravvivente osservare al di là di una trincea conficcata nell’anima, la vita che prende forma nella notte di Pasqua, appena fuori Parigi, scossa da una percepibile volontà di rinascere. Sgattaiolati da una formalità, cinque ragazzi in un alberghetto sperduto della campagna provano quella voluttuosa disperazione che segna la fine di una scappatella indimenticabile, di un attimo di felicità avvolta da una mussola rossa. La notte sta per finire e segna il ritorno a casa, ognuno al proprio ruolo rigorosamente borghese, sotto la pioggia. Che non lava il sapore curioso dei baci senza un’aspettativa da disattendere. I baci dei vent’anni che non reclamano ancora un futuro, ma debordano di un’intransigenza: il piacere immediato, gusto salmastro di peccaminosa inconsapevolezza. Per dirla con Cristina Campo cosa proibita, scura la primavera. Così sa essere per Solange Saint – Claire, Marianne Segrè, Dominique Hériot, Antoine Carmontel e il fratello Gilbert. Ognuno porta con sé nel crescere di un’alba bagnata il tumulto di sentimenti ancora oscuri come un’onda muta. Li segue la Némirovsky con il suo sguardo attento e lo spavento del disincanto nella penna, con gli occhi tersi nei temporali che intridono l’arco narrativo. Li rincorre con un frizzo benevolo lungo il cammino della loro esistenza da quando niente può alterare lo splendore della gioventù al momento in cui i bagliori si incurvano sotto il peso della maturità e del conformismo. Nel mezzo scandaglia il cuore, i suoi sussulti, l’approdo alle sue maschere. e socchiude le pagine verso un ammutolito moto dell’essere in due dove l’ebbrezza della passione, il trascinante corso dell’amore si calmano e mutano in una bonaccia rituale, tuttavia inespugnabile. Si chiede come avviene, nel matrimonio, il passaggio dall’amore all’amicizia? Quando si smette di tormentarsi a vicenda e si comincia finalmente a volersi bene? La risposta sta nei due protagonisti, Marianne e Antoine che vivono diversamente il desiderio, nascosto dietro il gioco e la lotta, senza l’ombra di un’intollerabile tenerezza e un po’ sconosciuti arrivano al matrimonio, placido riparo dai turbamenti e dalle più segrete delizie. Perché stancano gli sfregi nel cuore e le attese indicibili, le passioni raminghe, quel continuo prendere la mira per colpire il punto debole dell’anima e il matrimonio diventa il tepore sonnolento di una pace agognata. Cala così come un sipario una sorta di ignavia nel vibrare del corpo, a dispetto di un’unione coniugale feconda perfettamente incastonata nella leggenda personale che ci si cuce addosso. Ma saranno gli anni insieme a renderli invincibili solo se insieme, quel dormire immobili vicini a renderli una persona sola. Al di là di una passione negletta, ciò che hanno è una conquista distillata come il miele ed è quello che rimpiangeranno prima di morire.
M. Gabriella Puglisi
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Ven, Gen 25, 2013
Cultura