“Il principe fulvo” di Nigro alle Ciminiere di Catania
Una profonda vena allegorica con radici nel presente di Tomasi di Lampedusa
Sono ormai trascorsi 54 anni da quando il Gattopardo veniva pubblicato postumo presso Feltrinelli, con buona pace di Elio Vittorini che lo aveva respinto per Einaudi. Ed è veramente confortante – specie di questi tempi in cui la crisi finanziaria sembra avere intorpidito ogni aspetto dell’esistenza – notare come, ancora oggi, esso non smetta di esercitare il suo fascino e di interrogare il lettore moderno.
Nell’incontro di presentazione de Il principe fulvo, tenutosi al Centro Fieristico “Le Ciminiere” di Catania, il professore Salvatore Silvano Nigro ha individuato il fiat ispiratore del suo libro nella delusione per la miope accoglienza che, in patria e all’estero, era stata tributata all’edizione da lui curata, di un ciclo di epistole che Lampedusa aveva avuto con i suoi cugini, gli eccentrici fratelli Piccolo. L’amara constatazione che il mondo accademico in primis, non aveva compreso il materiale esplosivo che le lettere costituivano, ha fatto sorgere nell’autore l’esigenza di comporre uno studio critico che, sotto l’inusuale (ma non tanto se si considera la storia della critica italiana a partire da De Sanctis!) veste del racconto, rendesse chiaro quanto quei documenti rimodulassero sostanzialmente e significativamente la personalità e l’opera del nobile palermitano.
Sulla base di questo inedito materiale a disposizione, l’insigne critico ha saputo mettere da parte per un attimo la consueta interpretazione che fa del Gattopardo il capofila del romanzo storico e leggere nelle sue pieghe, una profonda vena allegorica che fonda le sue radici nel presente che il nobiluomo palermitano viveva e che veniva riflesso nell’opera letteraria, la cui convinzione ideologica è… supporre una sostanza storica che si perpetua, immutabile, sotto gli incidenti di regimi, rivoluzioni e governi (Vargas Llosa)
Un presente amaro e che faceva venire voglia di sputare sul proprio passaporto di uomo, come egli stesso scriveva alla moglie Alexandra nel 1943, descrivendo le terribili scene successive ad un bombardamento anglo-americano. Proprio grazie a questo epistolario, si sono potuti enucleare gli spunti antifascisti presenti nel romanzo («Noi fummo i Gattopardi, i Leoni», aveva detto il Principe, «quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene»), la maturazione interiore dello scrittore che va dall’ammirazione per il regime mussoliniano (Don Fabrizio muore alla fine di luglio del 1883: può essere un caso che il 29 luglio dello stesso anno nasca a Predappio Benito Mussolini?) alla sua “conversione” dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938 che colpirono anche una coppia di cari amici.
Nella sua polifonicità il romanzo dipinge una carrellata di personaggi: Tancredi, gattopardo dimezzato, Angelica, i cui denti affilati di lupatta ricordano quelli della Sirena incantatrice nell’omonimo racconto composto da Tomasi nel 1938, Concetta, la figlia punita, il genio del luogo ferrignamente corrusco. Fra tutti questi, si staglia, fra realtà e sogno, fra presente e passato, la figura del protagonista: Fabrizio Corbera di Salina, l’aristocratico a cui Lampedusa conferisce sia i tratti del bisnonno astronomo Giulio, sia quelli vigorosi e poderosi dell’Ercole Farnese, simbolo stesso della putrescente regalità borbonica. Un gigante solitario il principe Fabrizio che, per vincoli di decenza, non vuole salire nel carro del vincitore piemontese e che, tuttavia, non si fa scrupolo di individuare con lucidità le crepe del sogno a cui Garibaldi aveva dato inizio: un sopravvissuto, come il docente lo ha definito, che – fatto tragicamente ironico – esalerà l’ultimo respiro proprio nel garibaldino hotel Trinacria.
Si riapproprierà solo alla fine della scena: il dantesco guizzo finale di Bendicò riportandoci in una dimensione quasi onirica, non scevra da riferimenti colti (canto XXIV dell’Inferno) radica ancora di più in noi la convinzione che, la vera letteratura è come un prisma, nelle cui facce il sole riverbera bagliori, di volta in volta diversi, della multiforme realtà. Ed è questo lo ktema es aiei che la lettura del libro lascia nel profondo.
Maria Grazia Monteleone
Ven, Mag 25, 2012
Cultura, Eventi