“Baci a occhi aperti” di Matteo Collura
LA SICILIA DELLO SCRITTORE AGRIGENTINO
DESCRIVERLA «per quello che è, tenendo a freno l’orgoglio d’esservi nato e l’amore che si ha per la terra d’origine… E’ come se nel baciarla, la Sicilia, mi fossi sforzato di tenere gli occhi aperti continuando, pur nella voluttà, a notarne guasti e difetti.»
di Giuseppe Cantavenere
Descrivere la Sicilia, per Matteo Collura, è come dipingere. E davvero Collura ha un’esperienza giovanile di “pintore”, per dirla con Consolo, il quale, con Calvino, lesse Associazione Indigenti che uscì per Einaudi.
Un esordio letterario sorprendente. Redattore culturale del Corriere della Sera, Collura fu accolto nel mondo letterario con la pubblicazione, presso Longanesi, di due biografie appassionanti: Il Maestro di Regalpetra – Vita di Leonardo Sciascia, e Il gioco delle parti su Pirandello.
Viene poi il turno della Sicilia: Sicilia sconosciuta (Rizzoli) cui seguono, uno dopo l’altro, altri quattro libri (Longanesi) in cui descrive (dipinge) la “sua” Sicilia (e i siciliani) in tutti i suoi aspetti: storia, arte, tradizioni: ogni libro, un bacio.
Scrive nella Nota d’apertura l’Autore di questo nutrito, prezioso Baci a occhi aperti (Tea Ed., pag. 480): «I tanti baci che ho dato alla Sicilia, sempre costringendomi a non chiudere gli occhi, assaporandone il piacere… perché questa è stata la mia costante intenzione, lo sforzo di descrivere la Sicilia per quello che è, tenendo a freno l’orgoglio d’esservi nato e l’amore che si ha per la terra d’origine… E’ come se nel baciarla, la Sicilia, mi fossi sforzato di tenere gli occhi aperti continuando, pur nella voluttà, a notarne guasti e difetti. Ho fatto come Ulisse con le Sirene. Legato all’albero maestro, il mitico eroe, gli orecchi turati dalla cera, non cedette all’ammaliante canto delle donne-sirene, di cui i suoi compagni furono preda.»
La Sicilia è terra di confine, dove è facile arrivare, specie se conquistatori. È così da trecento anni. Fenici, Greci, Cartaginesi, Romani, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi. «Un’Isola, contro la quale i marosi della storia s’infrangono, cullandola in un sonno della ragione, che non fa che generare mostri.» E Dumas padre: «Cominciammo a scorgere l’antica Sicilia, quel mostro dal busto di donna e con la vita cinta da cani famelici, assai temuta dagli antichi marinai, e che l’indovino Eleno aveva così raccomandato a Enea di fuggire.» Trascurando che ogni popolo che l’abitò lasciò nell’isola testimonianza di civiltà, arte, costumi. La Sicilia, dalla Grecia, palestra di sapienza, ha mutuato filosofia, arte, civiltà, potere, conquistandosi il nome di Magna Grecia.
Quanti libri sono stati scritti sulla Sicilia, meta di visitatori di tutto il mondo, «sedotti dalla bellezza straordinaria che ignora le vie di mezzo, tra la mollezza lasciva e l’arsura dannata; questa bellezza del paesaggi, questi monumenti magnifici ma incomprensibili, perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti»: il famoso colloquio tra don Fabrizio Principe di Salina, e il piemontese Chevalley di Monterzuolo nel Gattopardo. «Questo stato di cose non durerà, cambierà tutto con la nuova amministrazione» tenta di sollevarlo Chevalley. «Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee. Noi fummo i Gattopardi, i leoni; chi ci sostituirà saranno le iene, gli sciacalletti, e iene e tutti quanti continueranno a credersi il sale del mondo.»
Cassibile, Collura ci s’imbatte per caso: qui, sotto un ulivo il 3 settembre 1943 il gen. Eisenhower, il gen. Alexander e il gen. Giuseppe Castellano sottoscrissero l’Armistizio che segna il nuovo corso della Storia.
Un luogo deserto, lo scrittore c’era stato alcuni anni prima: un posto ameno, un cippo, e intorno l’argento degli ulivi. Non una targa di marmo a ricordare lo storico evento. Chiede notizie, il viaggiatore, a una ragazza gentile. Ricorda, la ragazza, che c’erano degli ulivi, lei era ancora bambina. E ricorda di un turista siciliano che girava con la macchina fotografica in cerca di una memoria storica. Niente. Deluso, il turista, ha detto: «Noi siciliani siamo inquilini della storia.» Agrigento, splendida Valle dei Templi, colonne spezzate, cumuli di capitelli che conservano il colore dell’oro. Passano indifferenti gli indigeni, diretti alle spiagge, al mare.
Nella millenaria Valle dei Templi, come un miracolo, un busto arenario in ricordo di un personaggio amletico: Alexander Hardcastle ex capitano dell’esercito britannico, di passaggio, rapito dalla bellezza dei Templi, qui si fermò, dimentico della famiglia, della patria; dilapidando il suo patrimonio, contribuì alla valorizzazione di un luogo irripetibile. Riportò alla luce il tempio di Ercole, di Esculapio, e realizzò la condotta idrica che rese verdeggiante la Valle. Solo, povero, in preda a oscuri deliri, vi morì e fu sepolto in una modesta tomba, per suo desiderio, con una finestra aperta sulla Valle dei Templi per farvi entrare la luce e il profumo dei mandorli a primavera. Era il luglio del 1933.
Poco distante, al Caos, c’è la casa natale di Luigi Pirandello, ora Museo. Un viottolo conduce alla tomba del grande drammaturgo, un rustico sasso con dentro custodite le sue ceneri. Le incredibili disavventure del trasloco dal Verano di Roma in Sicilia meritano di essere lette nella ricca biografia di Collura. Va detto subito che il grande pino che ombreggiava la tomba fu spezzato da una furiosa tromba d’aria, che sembrò obbedire all’ultima volontà dello scrittore: perché niente vorrei avanzasse di me.
Il più significativo dei tanti momenti drammatici vissuti da Pirandello, negli ultimi anni della sua vita, nel ricordo del nipote Andrea, figlio di Fausto, famoso pittore: l’incontro dello scrittore con la moglie Antonietta, ricoverata in manicomio, dopo tredici anni di lontananza. L’incontro, non si sa se voluto da Luigi o dal figlio, per tentare una riconciliazione, avviene nell’appartamento di via Piemonte, a Roma. Luigi, Antonietta si chiamano per nome. Né un saluto, una stretta di mano, distanti tre metri uno dall’altra. In piedi, Luigi accanto allo scrittoio, la mano poggiata sulla spalliera della sedia. I presenti in attesa d’un gesto d’affetto, una scintilla di amore. Quell’antico amore travolgente da cui erano nati i tre figli. Gelo. Cenere. Gelosia, tradimenti, pazzia. La gelosia di Antonietta per il sofferto amore del marito per Marta Abba, la sua Musa, che finì per sconvolgere la sua mente malata. L’epilogo del dramma umano di Luigi Pirandello che si fa teatro: Il berretto a sonagli.
La Sicilia, un triangolo abbracciato da un mare limpido, a corona una manciata di isole dove s’intrecciano lingue di tutto il mondo. Turisti che sedotti da paesaggi di primitiva bellezza e da una vita semplice vi fanno stabile dimora. Tra tutti, Goethe: Non si può conoscere l’Italia, se non s’è vista la Sicilia. Degli scrittori siciliani, invece, la nota dominante è pessimistica. Verga con i suoi “vinti”, personaggi senza speranza, Capuana, Sciascia, Bufalino, Brancati, Consolo, Vittorini. Per tutti, però, il buen retiro, il luogo del cuore resta la Sicilia, il paese natio. Verga lascia Milano, e torna a Catania per viverci e morire; Vitaliano Brancati, roso dalla sensualità e dalla lussuria, lascia la corrotta Roma per ritirarsi a Zafferana Etnea; Gesualdo Bufalino, “arrestato in casa”, invece aveva il teatro dietro casa, l’ariosa piazza di Comiso, la Biblioteca comunale e una partita a carte al circolo, spesso interrotta da qualcuno per ricordargli che sua madre l’aspettava alla finestra (la madre aveva quasi cent’anni). Al grande Bufalino come l’amico Sciascia (che lo aveva coniato) piaceva servirsi del termine sicilitudine per definire la condizione del siciliano, lontano dalle correnti di pensiero, ma padrone di un luogo da non spartire con nessun altro. Un luogo in cui il siciliano s’insignora.
E Sciascia, scrive l’autore, l’illuminista di civile sentire, è più di tutti attaccato al luogo natio, come una patella allo scoglio. Racalmuto, la sua casa di campagna alla Noce, dove il grande scrittore trascorreva le estati, sin dalla nascita, a scrivere i suoi capolavori. Di quel luogo Sciascia usava dire, parafrasando Borges per Buenos Aires: Io stavo già qui e poi ci sono nato.
E Vittorini, anche lui cresciuto in un clima angusto, ha ritmo suggestivo, d’un respiro favoloso. Inquieto, allergico ai banchi di scuola, ragazzo, da Siracusa fugge a Gorizia e trova lavoro nel cantiere edile dello zio. Ritorna a Siracusa, dove l’aspetta la fidanzata Rosa Quasimodo. Contrari alle nozze i loro genitori, ferrovieri entrambi, di notte Elio, scavalca la rete che divide le due abitazioni e insieme a Rosa ricorre alla tradizionale fuitina. Ma in albergo non sono ricevuti per via della minore età di Elio, diciannovenne. Vanno al Teatro Greco, dove passano la loro prima notte insieme. Si sposeranno due mesi dopo e andranno ad abitare a Firenze, dove Elio trova lavoro a La Nazione, impara da autodidatta l’inglese, comincia a tradurre i grandi scrittori americani, da Faulkner a Staeinbeck a Saroyan. L’americano di Sicilia, Vittorini, che rivoluzionò il corso della letteratura.
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Gio, Gen 14, 2021
Cultura