Ritorna “L’uomo dal fiore in bocca” al “Mandela” di Misterbianco
Il noto dramma di Pirandello nella rielaborazione testuale e regia di Pino Pesce
Sono ancora percettibili le suggestioni, che navigano nell’anima, dopo la recente rappresentazione de L’uomo dal fiore in bocca, accolto con grande partecipazione di pubblico presso l’auditorium “Nelson Mandela” di Misterbianco.
Uno tra i più celebri drammi del ‘900, è stato riletto da Pino Pesce, direttore del periodico l’Alba. Nell’originale lavoro di adattamento, il regista Pesce lascia sì integro il testo, sia nella forma che nella struttura, ma lo arricchisce conferendogli un significato ancora più forte.
Dalla scenografia minimale ed efficace, coordinata da Alga Pesce e nutrita dall’opera dei videomakers Vincenza Mastroeni, Dalila Romeo e Vincenzo Santanocito, alle musiche di Elisa Russo, viene alla luce un atto unico, che mantiene le caratteristiche del dramma, dove confluiscono però l’impossibilità di comunicare e la precarietà della vita, elementi tipici pirandelliani. Il senso di caducità dell’uomo, il rischio di consunzione del corpo e dell’essere, si mostrano sotto al «baffo» del protagonista, dove tutta la relatività dall’esistenza prende forma.
Un epitelioma, il nome dolce del male che si beffa dell’esistere. Un malato di cancro, interpretato dall’attore Mario Opinato che rende quanto mai vivo, grazie al talento e all’esperienza, il senso amaro di un imminente distacco, portando il pubblico negli anfratti più commoventi e travagliati delluomo consapevole della sua instabilità, narra il suo percorso esistenziale ad uno sconosciuto, un pacifico avventore (Tony Pasqua), in un bar della stazione attraverso un dialogo, che diventa piano piano un monologo, tentativo strenuo di aggrapparsi a quella vita vista fino a prima della malattia con noncuranza e poi avvertita come volontà di indagare i più piccoli dettagli del senso della vita. Se questo è l’intimo significato dell’opera originale, dove l’ineluttabile ha il sopravvento su tutto, nella visione del regista (che abbraccia spunti narrativi pirandelliani da Uno, nessuno, centomila e da Di sera, un geranio) l’approdo drammatico, seppure intenso, si addolcisce, s’intride di speranza, in una dimensione nuova e singolare. Esiste, infatti, una possibilità che non sia la fine nella rivisitazione di Pesce, una rinascita che attutisce il senso dolente della solitudine di un uomo malato che muore «ogni attimo» in un palcoscenico inteso come “spazio mentale” di evocazione ed immaginazione. Tra la vita e la morte, tra mistero e immaginazione dove si muovono l’allegoria della vita e del tempo (Luisa Ippodrino) e l’allegoria del trapasso (Rossana Scinà) in un ballo di contesa che apre al finale di speranza. Quando tutto sembra perduto e la fine già arrivata, la voce fuori campo dell’attore Pino Caruso narra il distacco dell’anima dal corpo e che «la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra», materia e spirito che danno vita all’uomo, al baluginio del “mistero della vita” dal quale, nello stupore, prende corpo un nuovo incontro. Per cui è opportuna la domanda che si pone Salvo Nicotra presentando il lavoro di Pino Pesce: «cosa c’è di più vero del mistero?»
M. Gabriella Puglisi
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Gio, Apr 21, 2016
Eventi, Spettacolo