“Se’ nùmmari” di Salvatore Rizzo al “Musco” di Catania
Due vite in recriminazione, chiuse alla «pietà», alla «giustizia» e alla «speranza»
C’era la storia, tanta storia: diciott’anni di comune dolore in una coppia con un figlio tetraplegico quasi fosse un castigo di Dio non meritato («Iù sugnu bonu; Oraziu è bonu», dice a se stesso il protagonista che non si spiega il motivo del persecutorio e crudele destino); e cadeva ogni sogno in quelle due vite sfortunate in continua recriminazione, chiuse alla «pietà» alla «giustizia» alla «speranza»; moriva così la speranza in quelle due incolpevoli (ammenoché non ci fosse un’occulta ragione originaria) vittime, sacrificate ad un Moloch, loro raccapricciante edicola di preghiera. Non c’è quindi buon segno per i due, nemmeno quando vincono al Superenalotto indovinando tutti e sei i numeri; da qui il titolo della tragedia di Salvatore Rizzo: Se’ nùmmari che ho visto la sera del 3 maggio al “Musco” di Catania per la produzione del Teatro Stabile di Catania. Sei numeri che anziché lenire il dolore della coppia lo ammorbano facendole immaginare un futuro senza quel figlio; magari con altri figli sani. Progetto ossessivo-liberatorio del padre però, codesto; almeno inizialmente, perché «a matri è matri e nautra cosa è u patri», dice Anna che, per i diciotto anni del figlio, vuole la festa con torta e spumante; ma che, alla fine, cede all’inganno di una vita più sorridente. S’apre, allora, per i due, un precipizio di sola rovinosa discesa; «una trappola» senza felice recupero terreno; forse di solo perdono divino se il pentimento diventa contratto di Fede. Mi piacerebbe capirlo “tra le linee” del testo di Rizzo anche se ritorna chiaro, dal foglio di sala, che sta allo spettatore cogliere la propria «verità», perché Orazio ed Anna diranno ad ognuno «una cosa diversa»; e spero (per tutti!) sia una verità di riflessione catartica, senza quegli orribili arti tranciati e testa tagliata (di raffigurazione umana) appesi ad un albero della cuccagna, simbolicamente alla rovescia, come issato dal Male! quasi a voler essere l’unico approdo di quei due sventurati. Toglie decoro al lavoro teatrale codesto obbrobrio così maniacale! Ma è il culto dell’orrido e del sangue stratrito di Vincenzo Pirrotta. Per il resto – accettando il dialetto, in Rizzo, vivaddio!, dalla forza espressiva universalmente intelligibile – vanno bene la regia, le scene e i costumi che le musiche penetranti e, a volte, sinistre di Giacomo Cuticchio esaltano unitamente alle luci di Franco Buzzanca.
Eccellenti i due attori (Valeria Contadino e Filippo Luna) che, per 50 minuti, lasciano il pubblico senza fiato introiettandoselo tutto loro due, unico – nel bene (per il solo modo di dire formale dell’accoppiata manichea!) e nel male (unico dominatore!) – blocco carnale in ansimante delirio, monolite di sola tragedia!
Alla fine, però, il pubblico ritrova il fiato e applaude a lungo…
Pino Pesce
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Mar, Mag 13, 2014
Spettacolo