“Manfredi tra scomunica e redenzione” d’Orazio Antonio Bologna
Un’attenta indagine che ripercorre Dante, la linguistica, le tradizioni popolari la storia della Chiesa e d’Italia
La vicenda storica di Manfredi di Svevia (1232-1266), successore del padre Federico II nel regno di Sicilia (comprendente quasi tutta l’Italia Meridionale), dopo esserne stato reggente dal 1250 al 1258, e ucciso in battaglia dagli angioini mossi contro di lui dal papa Clemente IV, attraverso i secoli ha sempre attratto gli studiosi, dato che egli era esaltato dai ghibellini e patrioti italiani ma fortemente avversato dai guelfi e dagli ecclesiastici.
Il libro Manfredi tra scomunica e redenzione d’Orazio Antonio Bologna (Sentieri meridiani, Foggia, 2010, pp. 120, € 14) ripercorre e interpreta tale vicenda alla luce del pensiero di Dante; e nella sua analisi investe diversi filoni d’indagine: dantistica, storia della Chiesa, storia d’Italia, tradizioni popolari, linguistica.
Secondo l’autore, che tratta il personaggio con grande simpatia e ammirazione, Dante collocò Manfredi nell’antipurgatorio (Purg. III 103-145) non quale scomunicato dal papa — dato che tale scomunica era motivata da questioni non dottrinarie ma territoriali — bensì quale colpevole d’orribili peccati non meglio specificati: pentitosi di tali peccati all’ultimo momento della vita, egli non aveva da pentirsi d’una scomunica non valida secondo il divino poeta, il quale la pensava proprio come Manfredi, sua proiezione, ed era anche lui padre di figli e perseguitato da un papa simoniaco. Infatti, in base alla teoria dantesca dei due soli (Purg. XVI 106-129), Dio ha disposto per il bene dell’umanità due capi: il papa per guidare gli uomini alla felicità spirituale e l’imperatore per guidarli alla felicità terrena. Volendo appropriarsi del potere temporale, il papa si distoglieva dalle funzioni prettamente spirituali; e quindi ben faceva Manfredi a cercare di strappare territori a lui per tentare di costituire l’unità d’Italia come avevano tentato di fare il padre Federico II e prima ancora i longobardi, i franchi e i normanni, sempre incappando nell’ostacolo della Chiesa. È vero che alcuni curialisti pontifici vedevano una deviazione di Dante dall’ortodossia nel separare la felicità terrena da quella ultraterrena; ma il poeta poi riconobbe che la prima è in qualche modo soggetta alla seconda. Quindi la scomunica che sconta Manfredi nell’antipurgatorio non è quella inflitta dal papa, ma un’autoesclusione dalla comunione dei santi o comunione della Chiesa a causa degli orribili peccati commessi, da lui riconosciuti.
Insomma Dante non avrebbe potuto concepire una condanna da parte di Dio d’un re come Manfredi, convinto d’agire per mandato divino contro la Chiesa, allontanatasi dagli scopi per i quali era stata fondata da Gesù.
Ovviamente a chi conosce il pensiero di Dante l’originale tesi del Bologna appare verosimile e affascinante, anche se collide con la plurisecolare tradizione esegetica, che ha ritenuto Manfredi punito qui perché scomunicato dal papa, ed in particolare con l’opinione di Benedetto Croce il quale scrisse che Manfredi nel suo pentimento finale, pur deplorando il comportamento persecutorio da parte degli ecclesiastici nei confronti del suo cadavere, “vede il loro torto e vede anche il torto proprio e le ragioni della santa Chiesa” (La poesia di Dante, Laterza, Bari, 1921, p. 109).
In questo libro c’è un rimprovero alla gerarchia ecclesiastica per l’ostinazione nel pretendere il potere temporale, dimenticando da una parte l’insegnamento del Crocifisso, il quale lasciò l’esempio d’un’estrema povertà, dall’altra il richiamo di personaggi autorevoli, anche fondatori d’ordini religiosi, che per aver predicato l’esigenza per papi, cardinali e vescovi d’abbandonare il loro scandaloso comportamento e ritornare allo spirito evangelico dei primordi, furono perseguitati e finirono sul rogo o perlomeno dichiarati pazzi. E per questo può sembrare una stonatura la massima iniziale del papa Pio IX (p. 7), grande assertore e difensore del potere temporale.
L’autore parla diffusamente di simonia, corruzione, frode, immoralità, sfarzo, nepotismo, odi e sanguinose lotte per il conseguimento del papato che vigevano fra gli ecclesiastici (e che non escludevano le ricompense sostanziose ai cardinali elettori, ma anche le vendette e gli omicidi); delinea la Chiesa come organismo politico più che spirituale e presenta Manfredi come unto del Signore, esecutore d’una missione affidatagli da Dio e martire della spregiudicata politica dei papi, dato che “La brama di potere era così grande che chiunque vi si opponeva era considerato nemico di Dio e, come tale, veniva combattuto con tutte le armi, compresa la scomunica” (p. 25). Tuttavia ci tiene a sottolineare la sintonia di Dante con l’insegnamento dogmatico basato sulla Dottrina e sulla Tradizione e il suo disappunto per la politica del papato, il quale, sotto l’egida della Croce, “s’ingeriva con crescente prepotenza negli affari interni degli Stati, determinava squilibri e seminava discordie, spesso finite nel sangue” (p. 26).
Quindi egli esamina dettagliatamente il trattato dantesco De Monarchia e la presunta donazione di Costantino, facendo rilevare che secondo Dante i beni ricevuti dal papa avrebbero dovuto costituire un patrimonio da utilizzare per i poveri e non per uno Stato politico; descrive il luogo della battaglia di Benevento in cui il re svevo perse la vita (1266); segue le tracce del suo cadavere dalla provvisoria tomba fattagli erigere dal re Carlo I, vincitore anche grazie al tradimento di baroni pugliesi (a cui accenna pure Dante in Inf. XXVIII 16), alla riesumazione e all’abbandono d’esso lungo il fiume Verde, fino all’individuazione della corrispondenza fra Verde e Calore; e in queste indagini si trasforma quasi in un investigatore, visitando luoghi, interpellando persone e allegando documenti d’archivio, prove e testimonianze varie, come le leggende popolari della zona, da lui ben conosciuta per esservi nato.
L’opera si configura come una dura requisitoria contro le brame terrene degli ecclesiastici del passato a danno della spiritualità e della diffusione del vangelo; e, secondo l’autore, il Concilio Vaticano II “non è riuscito a cancellare del tutto la patina di temporalità, che ancora permane e incrosta la mente di qualche rigido conservatore” (p. 33). La presunta donazione di Costantino si trasformò in “roccaforte d’un potere spesso soverchiatore e dispotico” (p. 54), lusso sfrenato e sfruttamento di poveri cittadini. Perciò Manfredi, che quale capo dei ghibellini italiani aspirava a cingere la corona del ricostituendo regno d’Italia e poi quella imperiale, è morto per una causa santa; e Dante non l’ha dannato all’inferno, come il padre eretico (Inf. X 119), ma posto in luogo di salvazione, implorante indulgenze acquistabili non con donazioni o lasciti, ma con orazioni, specialmente con quelle della bella e buona figlia Costanza.
La forma è chiara, scorrevole e corretta (salvo alcuni refusi, sviste e ripetizioni), con particolare attenzione alla punteggiatura e al lessico, che lo rende accessibile a tutti, grazie anche al fatto che numerose espressioni in latino sono tradotte in nota. Dal punto di vista grafico-editoriale, il libro è decoroso, ha buona carta e caratteri leggibili ed è ben impaginato, anche se manca la numerazione delle pp. 64-67.
In chiusura è collocata una ricca bibliografia, in cui però — a quanto dichiarato a p. 15 — sono trascurati i contributi più recenti. L’autore non ha messo qui una sua biografia, ma cercando nella rete telematica si può vedere fra l’altro ch’egli vive ed opera vicino ai responsabili della Chiesa Cattolica: infatti, dopo essere stato docente di lettere classiche nei licei, ora egli insegna letteratura latina nell’università pontificia salesiana di Roma, è latinista e collaboratore della rivista vaticana “Latinitas” più volte premiato in Vaticano (e al riguardo si veda la bella dedica in latino con cui s’apre questo volume), autore di varie pubblicazioni principalmente in latino e membro della Pontificia Academia Latinitatis.
Carmelo Ciccia
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Dom, Mar 9, 2014
Cultura