“Lucia di Lammermoor” di Donizetti al “Bellini” di Catania
Gio, Dic 19, 2013
Continui applausi a scena aperta alla tragica e commovente storia d’amore del compositore bergamasco
Nella semplicità scenografica (scenografia “minimalista”, si dice oggi) non poteva essere meglio rappresentato il dramma d’amore e morte dei due infelici amanti della Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, in scena, fino a quest’ultimo 11 dicembre, al Teatro Massimo “Bellini” di Catania dietro la valente direzione orchestrale di Emmanuel Plasson (il 10/12, primo cast) – cui, in altre recite, si è alternato Leonardo Catalanotto – e la professionale regia di Gugliemo Ferro che ha saputo ben cogliere la tragicità dell’opera nelle impetuose sublimi note del compositore bergamasco e nella tenebrosa poesia di Salvatore Cammarano, il quale aveva costruito il suo libretto sulla Sposa di Lammermoor di Walter Scott con filtro shakespeariano. Si pensi al casto e sventurato amore di Lucia ed Edgardo; la prima raccoglie in sé l’avverso destino di Giulietta, Ofelia e Desdemona; il secondo, ossessionato dal dubbio, quello di Amleto e Otello.
Complici (probabilmente) le ristrettezze economiche attuali e, nel caso, i forti tagli al teatro; complici certamente scenografo (Stefano Pace), regista e aiuto regista-videomaker (Massimiliano Pace), è stata, nell’essenzialità, allestita una scenografia altamente suggestiva che – dall’inizio: bosco del castello di Ravenswood con scena di caccia dietro il “turpe” “velo” del “mistero” alle rovine della torre di Wolferag e tombe dei Ravenswood – ha saputo offrire un’atmosfera ossianica da cari banchi di scuola in chiave mediatica: un minaccioso cielo traverso in videoproiezione volteggiava, infatti, nubi fosche talora rosseggianti, fino al color sangue del tragico finale, in desolante luna chiareggiante sopra il freddo paesaggio immaginifico della brumosa Scozia.
In questa «landa desolata» – dove l’originaria pioggia viene, dal regista, sostituita con la neve per «segnare» meglio, col suo «bianco», «il nero del dolore» – si snoda la tragica vicenda di Lucia e di Sir Edgardo di Ravenswood, amanti osteggiati dal fratello di lei, Lord Enrico Asthon, che, già usurpatore dei beni del giovane nobile, gli è mortalmente nemico e pertanto impone alla sorella di sposare Lord Arturo Buckalaw il quale, a nozze fatte, lo avrebbe salvato dal tracollo del proprio casato non favorito dalle lotte politiche che stavano sconvolgendo il regno scozzese nella seconda metà del XVI secolo.
Lettere di Edgardo all’amata, intercettate e nascoste, un’altra falsa per allontanare la giovane dall’amato, favoriscono (per le mene del subdolo Normanno) il matrimonio fra Arturo e Lucia che sarà di luttuoso epilogo. La sventurata sposa, infatti, odiata dall’ingannato innamorato che si convince della sua infedeltà, in preda alla follia, uccide l’imposto sposo e, subito, muore di crepacuore. La tragedia non si ferma: Edgardo, saputo dell’innocente fine di Lucia, colpito da disperato amore, implorante, si trafigge con un pugnale il cuore: «Se divisi fummo in terra,/ ne congiunga il Nume in ciel.» Sono gli ultimi due disperati versi della straziante cabaletta («Tu che a Dio spiegasti l’ali») che chiude, in pietas, la dolorosa storia d’amore tra lo sgomento di Raimondo (il pastore, padre spirituale di Lucia) e del coro.
La commozione è alta; scrosciano gli applausi a spella mani sul trasporto potente del coro di Tiziana Carlini, ma che dichiarano anche la bravura del tenore Emanuele D’Aguanno (Edgardo) [in sostituzione di Alessandro Liberatore], appena esibitosi nella commovente cabaletta, sempre raffinato nel variare i toni; che dichiarano soprattutto (sarà poi una trionfale ovazione nel suo commiato) l’eccellenza canora della soprano Rosanna Savoia, la quale ha letteralmente estasiato il pubblico coi suoi virtuosi gorgheggi di dolore in intimo dialogo con un flauto traverso solista mentre, da pazza Lucia, spirava.
E il pubblico non ha lesinato applausi; è stato sempre generoso verso tutti gli altri attori che hanno saputo onorare il loro ruolo; dal meno eclatante: Salvatore D’Agata (Normanno) a quelli più o meno rilevanti, lodevoli però nei duetti, di cui, oltre quello-culmine Savoia-D’Aguanno, è obbligo evidenziare quelli di Francesco Palmieri (Raimondo), in coppia con la protagonista, e di Piero Terranova in coppia sempre con la Savoia, e nel quartetto D’Aguanno-Savoia-Terranova-Palmieri che apre, poi, a Giuseppe Costanzo (Arturo) e a Loredana Rita Megna (Alisa, fedele damigella di Lucia) in un riuscitissimo sestetto d’intesa canora, colmato di calorosi applausi. Che è doveroso estendere al costumista Francoise Raybaud, all’assistente scene e costumi Virginia Carnabuci e al datore di luci Bruno Ciulli, agli allestitori scenici dell’E.A.R. del “Bellini” e all’eccellente orchestra anch’essa dello stesso Teatro.
Si chiude così, con il successo artistico della Lucia, la stagione teatrale 2012/13, mentre incombe l’ombra minacciosa sul futuro del Teatro Massimo; non per nulla tutte le rappresentazioni teatrali, dal 3 dicembre all’11, sono state introdotte da un corteo funebre simbolico dei dipendenti del “Bellini”, coro compreso, che sulle note della Marcia funebre di Chopin ha protestato contro gli amministratori locali e regionali, i quali assistono imbelli alla morte di un teatro che va invece difeso come un Nume tutelare, perché – come gridava una scritta, mutuata da Federico Garcia Lorca – «Un popolo senza teatro è un popolo morto».
Pino Pesce
(già sul cartaceo, anche su www.lalba.info)
Tags: alba, bellini, catania, donizetti, l'alba, l'alba periodico, lucia di lammermoor, pino pesce, teatro
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