Gerardo Sangiorgio, esempio di coerenza morale e intellettuale
Salvatore Borzì risponde a Pasquale Licciardello sul “resistente che non si piegò”
«Non si tratta, è evidente, di una questione secondaria per il credente (si veda, ad esempio, Benedetto XVI, Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz, Mondadori 2012, con contributi di A. Cohen, W. Bartoszewski e J. B. Metz), ma per lui Dio, come vuole Bonhoeffer, che visse, come il nostro, il dramma della prigionia nei lager, non è il “tappabuchi” delle colpe dell’uomo.»
Gerardo Sangiorgio, come ben ritiene Pasquale Licciardello e come ha sottolineato con forza la giornata di studi celebrata per meritoria iniziativa del Comune di Biancavilla in occasione del ventennale della morte (4 marzo 2013), offre a noi tutti un esempio di coerenza morale e intellettuale, ormai assai rara ai nostri tempi, non solo negli anni della detenzione nei lager nazisti, drammaticamente ricordati nelle pagine delle Memorie di prigionia, vibranti di umanità che suona quale riscatto dalla degradazione della propria dignità, ma anche in ogni momento della sua vita: da insegnante, da studioso, da padre di famiglia, nei rapporti con gli uomini egli seppe trasformare i valori in cui credeva in concretezza di scelte e di vita, anche a costo di duri sacrifici e rinunce. Tutto ciò è ben sottolineato da Licciardello. Quello che però, a mio avviso, resta in ombra o, mi si consenta, frainteso, è l’elemento vitale che da solo basta a dare ragione di tale assoluta coerenza fra valori e vita, ossia la fede profonda di Gerardo, senza la quale il ritratto efficacemente delineato dallo studioso resta solo una splendida, ma vuota oleografia. Né serve dissacrare la religione come causa di orrendi crimini contro l’uomo, come ciò che «avvelena ogni cosa», né rimandare, a conferma di ciò, agli studi di Odifreddi, per altro pieni di inesattezze che cozzano con la storia, la teologia, la ragione e talvolta col semplice buon senso, come dimostra, in un illuminante saggio, Vincenzo Vitale (Volti dell’ateismo, Sugarco 2010).
In effetti, la persona di Gerardo, ogni suo verso, ogni singola parola, gli «ideali di libertà, di pace, di amore verso gli ultimi», ricordati a ragione da Licciardello, sono animati nel profondo da una fede intensamente sentita e vissuta nella dimensione della sofferenza, della rinuncia di sé e della dedizione totale e incondizionata all’altro, che si nutre dell’intensità dell’Amore di Dio. Non a caso negli anni della più acuta sofferenza, come quelli dei lager, egli trovò la forza di resistere alle violenze dei suoi aguzzini proprio nella fede in Dio, come attestano numerose lettere inviate da quell’inferno alla famiglia e gli stessi versi diUn pezzo di pane calpestato, citati da Licciardello. Credo che in quei frangenti Gerardo, come ogni uomo di fede vera, non avrebbe mai ritenuto la sua fortunata salvezza riparazione per la morte di altri milioni di innocenti, anch’essi, come lui, ugualmente figli di Dio, né si sarebbe mai chiesto perché Dio non abbia fermato i crimini contro la dignità dell’uomo, né avrebbe dubitato della sua onnipotenza, come Hans Jonas e tanti altri teologi ebrei (bisognerebbe chiedersi anche perché Egli non impedisca alla terra di tremare o alle montagne di franare). Non si tratta, è evidente, di una questione secondaria per il credente (si veda, ad esempio, Benedetto XVI, Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz, Mondadori 2012, con contributi di A. Cohen, W. Bartoszewski e J. B. Metz), ma per lui Dio, come vuole Bonhoeffer, che visse, come il nostro, il dramma della prigionia nei lager, non è il “tappabuchi” delle colpe dell’uomo. Se Egli intervenisse a fermarne la mano criminale, non rispetterebbe la condizione di libertà in cui lo ha creato e deresponsabilizzerebbe il suo agire di fronte a se stesso, agli altri e al tribunale della storia: non c’è infatti vera e autentica libertà senza responsabilità, come insegnano, tra gli altri, Sant’Agostino e San Tommaso.
Anzi proprio nel dolore Gerardo sente rivivere nella sua viva carne le sofferenze della Passione di Cristo. Forte di questa certezza, il dolore si trasforma in luce per gli altri, specialmente per i più deboli e gli emarginati, verso i quali il nostro, sull’esempio di Cristo, diede prova di amore e di assoluta dedizione. Per lui quindi la religione è ben lungi dall’«avvelenare ogni cosa»: anzi la addolcisce, trasformandola in parola di speranza, di cui la nostra società ha estremo bisogno per continuare – o, se si vuole, ricominciare – a vivere e a credere ancora in se stessa, rinnovandosi su valori autenticamente veri.
Salvatore Borzì
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Lun, Apr 22, 2013
Cultura