La traviata di Verdi al Teatro Massimo “Bellini” di Catania
La “buona musica” del compositore di Busseto nella fedele rilettura di Giuseppe Dipasquale
Dopo aver visto La traviata di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, il 7 di quest’ultimo dicembre, solleticato dalla severità compositiva del musicista di Busseto, ho rivisitato le mie conoscenze sull’arte del creare, in musica e in parole, e/o dell’eseguire registicamente un lavoro teatrale. Mi sono così ritrovato con Verdi, il quale sosteneva che non ci può essere vero melodramma se alle note non si accompagnano versi di buona poesia. Questo modo di pensare, che avrebbe imposto ai suoi librettisti, venne definito “dittatura”. Doverosa prudenza del condizionale, perché il Maestro aveva gran rispetto, pur nella severità, dei suoi collaboratori; basterebbero, a convincerci, le due missive del febbraio 1858 fra Verdi e il librettista Antonio Somma.
C’era stata già l’eccellenza, anche riformistica, di Rossini, Bellini e Donizetti, ma l’impeto dei tre compositori non era stato però tale da liberarsi completamente dal debole retaggio librettistico settecentesco; d’altronde lo stesso Verdi, della prima metà dell’Ottocento, vi era rimasto invischiato. Il salto, infatti, lo farà nei primi degli anni cinquanta con la tanto decantata trilogia popolare: Rigoletto (1851),Il trovatore e La traviata (entrambi 1853).
Il Settecento aveva avuto compositori melodrammatici di rispetto, ma l’ossequio ai generi musicali del tempo (arcadico, classico o buffo) aveva rivolto poca attenzione alla qualità del testo; tanto che poi (in una proposta di concorso del 1804) vennero denunciati la “sciatta versificazione” e la “noiosa monotonia” dei melodrammi molto simili fra di loro, anche quando sono di autori diversi. Quindi il librettista doveva avere talento poetico e originalità: «ciascun dramma dello stesso poeta, se ha genio, riesce necessariamente più o meno diverso dall’altro», dirà addirittura Ugo Foscolo.
Per Verdi dunque le parole favoriscono l’ispirazione musicale: «è impossibile ch’io faccia buona musica s’io non ho capito bene il dramma e non ne sono persuaso». In nome di questa “buona musica”, il compositore rimaneggiò (sarebbe determinante sapere in che misura!) il lavoro di Francesco Maria Piave che si era ispirato alla Signora delle camelie di Alessandro Dumas figlio. Ma, remissività o meno, l’alto risultato della sintesi poeticomusicale è sotto gli occhi di tutti. Anche di chi ha seguito, sul finire del 2012,La traviata riproposta al Teatro Massimo “Bellini” di Catania sotto la sapiente fedeltà registica di Giuseppe Dipasquale, sostenuto dall’esperta bacchetta di Giampaolo Maria Bisanti.
Dipasquale della straordinaria storia d’amore fra Violetta Valery (mantenuta cortigiana, protetta dal barone Douphol) ed Alfredo Germont (che l’ama alla follia senza pregiudizi sul suo passato), subito defluita in tormentata sofferenza (proprio quando la felicità sembrava toccata dalla purezza d’amore) che culmina con la morte di lei per tisi, esalta la gioia «sfrenato edonismo per esorcizzare la morte […] amore ritrovato contro l’effimero piacere del momento […] finale tragico su cui Violetta perisce senza possibilità di riscatto»; s’intende terreno, perché in questa gioia (che smentisce chi riduce Verdi alla “forza del destino”, facendone un ateo), vedrei (anche nell’emulazione del verso) la manzoniana “provvida sventura”. Dio ben si rivela infatti per bocca di Germont padre: prima (nel II atto), dopo la riconciliazione con Violetta: «Mercé di queste lagrime/ Dal cielo un giorno avrete.»; dopo (a chiusura del III), con piùpathos, nel momento del trapasso della sventurata: «Vola ai beati spiriti;/ Iddio ti chiama a sé.»
Ma proprio Germont, padre di Alfredo, considerando Violetta una “traviata”, l’aveva – pur se (ravvedendosi dopo) nella comprensione di un ingiusto sacrificio, comunque sempre riparatore in nome dell’ordine morale/sociale – portata alla rinuncia del figlio: «D’Alfredo il padre/ La sorte, l’avvenir domanda or qui/ De’ suoi due figli» e, come se non ci fosse più riparo per l’infelice “vinta”, afferma: «Pura siccome un angelo/ Iddio mi die’ una figlia;/ Se Alfredo nega riedere/ In seno alla famiglia,/ L’amato e amante giovane,/ Cui sposa andar dovea,/ Or si ricusa al vincolo». Un’immolazione di condiscendente autoespiazione quella di Violetta («Dite alla giovine – sì bella e pura/ Ch’avvi una vittima – della sventura») che subirà la gelosia e la sdegnosa ira dell’amato, il quale, avendo dubitato della fedeltà di lei, a casa di Flora, mentre si festeggia il carnevale, la umilia davanti a tutti: « […] tergermi/ Da tanta macchia bramo/ Qui testimoni vi chiamo/ Che qui pagata io l’ho.»
Ma qui, facendo capolino i buoni sentimenti e valori del Romanticismo, che vogliono la donna un’”eroina”, si leva lo sdegno collettivo dei presenti (la società che è, nella sua ipocrisia, ma anche nel suo ideale di essere) e in particolare di Germont, il quale riprende furibondo il figlio con parole femministe ante litteram: «Di sprezzo degno se stesso rende/ Chi pur nell’ira la donna offende.» E’ il climax del II atto che si scioglie con il pentimento di Alfredo («Gelosa smania, deluso amore/ Mi strazia l’alma più non ragiono/ […] rimorso n’ho»); Violetta che si riprende dallo svenimento, dopo la durezza dell’amato («Dio dai rimorsi ti salvi allora;/ Io spenta ancora – pur t’amerò»; il barone Douphol che sfida a duello il giovane amante; il coro che conforta l’offesa.
Inusuale suspense quella della chiusura del II atto: l’attesa del duello, infatti, nel terzo, sembra dissolversi nella fiamma del “caminetto” descritto nella scena I. Tutto va verso la fine della “poveretta” in una camera da letto, a Parigi, mentre fuori “impazza” il carnevale. E l’emozione cresce nel palpito della vita e della morte che accentuano le note eccelse di Verdi; negli accenti foscoliani di Piave, i quali raccontano l’agonia di una donna che si ritrova senza affetti: «Non lagrima o fiore avrà la mia fossa,/ Non croce col nome che copre quest’ossa!». Ecco però che, all’improvviso, arriva il pentito Alfredo («Colpevol sono… so tutto, o cara.») a restituire la speranza a Violetta («Io so che alfine reso mi sei!»). Arriva anche Giorgio Germont tormentato dal rimorso. I due amanti tentano progetti («Parigi, o cara// o noi lasceremo/ La vita uniti trascorreremo:/ […] La mia// tua salute rifiorirà.») ma la fine di lei è ormai arrivata: nella «gioia» che rivivrà però dopo «gli spasmi del dolore»!
Qui l’epilogo di un dramma, che è anche prologo, annunciato già dalle luttuose note dell’ouverture, la quale svolgerà in flash back la tragica storia d’amore, cominciata, a casa di Violetta, nella fastosità di un banchetto che esalta il vino e l’amore nel celeberrimo valzer («Libiam ne’ lieti calici»), il quale è anche e soprattutto danza della vita e della morte (che Luchino Visconti, sotto altri cieli, trasporrà, in grande stile, nel suo Gattopardo cinematografico).
Dipasquale, fedele alla «gioia» di una migliore resurrezione, riporta sulla scena d’apertura il letto di morte di Violetta facendole rivivere, «come orologio dei ricordi», il tempo del suo combattuto e sfortunato amore.
Ho seguito l’opera nella formazione del 2° cast. Non saprei che dire del primo, senz’altro ben rappresentato dal soprano Yolanda Auyanet, ma suppongo che il gruppo del 7 dicembre sia stato secondo solo nell’ordine formale; me lo farebbero affermare due nomi in particolare: quello del baritono Piero Terranova, dalla voce limpida e possente, nel ruolo di Germont padre e soprattutto quello del soprano Daniela Schillaci nel ruolo di Violetta, la quale ha sempre padroneggiato la scena, nella gioia e nel dolore, esaltando musica e parole; commuovendo fino all’inverosimile, come nell’aria: «Di lagrime avea d’uopo or son tranquilla/ Lo vedi? Ti sorrido/ Sarò là, tra quei fior presso a te sempre./ Amami, Alfredo, quant’io t’amo…/ Addio.»
Meritevoli anche gli altri interpreti: Silvio Zanon (Giorgio Germont del I cast), Shalva Mukeria/ Deniz Leone (Alfredo Germont), Monica Minarelli (Flora Bervoix), Piera Bivona (Annina), Alfio Marletta (Gastone), Salvo Todaro (Il Barone Douphol), Paolo La Delfa (Il Marchese D’Obigny), Maurizio Muscolino (Il Dottore Grenvil), Mariano Brischetto (Giuseppe), Daniele Bartolini (Un domestico), Daniele Bartolini (Un commissario).
Di bell’effetto la scenografia baroccheggiante di Antonio Fiorentino che, con sobria grazia, ha stilizzato splendidi cristalli con luttuosi fregi a mo’ di cornice che l’armonico contrasto di luci di Salvatore da Campo ha ben valorizzato assieme ai costumi ottocenteschi di Dora Argento. Sempre impeccabile il Maestro del coro Tiziana Carlini.
Pino Pesce
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Dom, Feb 3, 2013
Eventi, Spettacolo