Sempre attuali “Le braci” di Sándor Márai
Un’attesa di 41anni di solitudine tra i Carpazi e la puszta ungherese
Alcuni libri del passato possono essere considerati romanzi al presente, intrisi di una sorprendente attualità. È il caso de Le braci. Scritto più di sessant’anni fa, affronta il tema del desiderio in sé, della passione indissolubile, significato dell’intera vita. In ogni esistenza e in qualunque tempo c’è un amico perduto, un amore interrotto sotto i colpi della complessità delle relazioni umane. Ma i legami si estinguono? Sándor Márai affida la risposta ad una data che potrebbe appartenere a qualsiasi epoca. Due luglio milleottocentonovantanove, quella della caccia. Quattordici agosto millenovecentoquaranta. Quarantun anni e quarantatre giorni. Il tempo trascorso tra un giorno remoto e il giorno presente, di un’attesa che come un demone s’insinua e striscia in un mondo di solitudine intabarrata tra i Carpazi e la puszta ungherese. Un tempo scandito dai battiti scevri di speranza del generale Henrik che aspetta immerso in una memoria stepposa, aspra, interrogativa, confortato solo dall’amore della balia Nini. Un amore inspiegabile, un legame di latte li unisce in castello dove regna la memoria. I ricordi dissertano in un soliloquio estenuante alla ricerca della verità, di quell’ultimo tassello mancante che è conferma e forse pace. Chi può restituirlo è solo Konrad,. conosciuto ai tempi del collegio viennese. I due si ritrovano uniti da un’amicizia unica, seria e silenziosa che, nel guazzabuglio dell’acre odore di umanità, di assordanti sconquassi passionali, irradia una luce mansueta, quasi mistica, senza pretesa di sacrificio, pura e libera in un’apparente perfezione di affinità elettiva. Il rapporto cresce, i due amici diventano inseparabili nella convinzione della loro similitudine. Ma Henrik è il tramonto e Konrad l’aurora e nascita e morte del sole spesso sono irriconoscibili, le luci si camuffano fra loro, la loro immagine scivola dentro l’occhio e, ingoiata, ne annulla per gioco o per fato la dissonanza. Ma c’è e rimane pervicace veleno dell’animo umano. Si trasforma in odio latente. Konrad odia Henrik perché è ricco, Henrik odia Konrad perchè è un artista. Esisteranno sempre due atri inattraversabili per entrambi, due cosmi differenti: il rango e la musica. E Krizstina. Mezzogiorno e mediazione tra i due amici, un’ulteriore luce che abbraccia due orizzonti senza appartenere a quel cielo. Sposa il generale, ma entra nel rifugio di Konrad, in quella musica coscienza e corpo, imposizione fatale che poteva deviarlo dalla sua traiettoria e spezzare qualcosa dentro di lui. Così le passioni insorgono guidate da La fantaisie polonaise di Chopin: orgoglio, vanità, presunzione, tradimento, vendetta, desiderio di uccidere nel desueto significato erotico in un istante mancato. Esplode tutto ciò che di solito viene accuratamente occultato dall’ordinamento umano, il due luglio milleottocentonovantanove. Da questa data ognuno si congeda dall’altro. Konrad fugge ai Tropici, verso quella luce più orientale e nascente; Krizstina va via nel modo più assoluto possibile come solo la luce del mezzogiorno sa fare; Henrik si esilia in un mondo che non c’è più, nel crepuscolo dell’Impero, nel ricordo della Vienna dei walzer. Resta e attende la verità da Konrad nel declinare di un secolo così colmo di devastazioni. Resta l’amicizia a dispetto di tutto. Vivono entrambi nell’attesa di quell’incontro ordinato e crudele, quarantun anni dopo, per una rivincita, ormai ineffabile e vana. Sguardi, silenzi, distese di parole nel fluire letterario di Sándor Márai schiariscono la scepsi dolorosa, riportano in superficie la passione che il tempo ha soltanto attutito senza riuscire ad estinguerne le braci, riportano in vita i due amici, vittima e carnefice con le loro vergogne, consapevoli dell’esistenza di domande che non è possibile affidare alle parole. Un raggiungimento di coscienza lungo una vita probabilmente perché l’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore.
M. Gabriella Puglisi
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Dom, Nov 18, 2012
Cultura, Informazione