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Errori e abusi nella lingua italiana

Mer, Nov 28, 2012

Cultura

Moda del parlato, anche codificato, che continua a stravolgere l’uso corretto

Da alcuni anni certi nuovi giornalisti e scrittori, nel tracciare biografie proprie o altrui, fanno seguire la preposizione “con” al verbo “collaborare” nei casi di collaborazione a giornali e riviste. Tale moda, anche se entrata nel Dizionario italiano dell’uso del De Mauro con l’esempio “collaborare con una rivista scientifica”, è criticabile per il fatto che negli stessi casi per correttezza si deve usare la preposizione “a” (in latino ad), la quale indica il fine o scopo della collaborazione; ed è una moda irrazionale, che pretende di correggere una locuzione giusta e anzi perfetta nei secoli.

In realtà una persona non può collaborare (cioè lavorare insieme) con dei fogli di carta, ma collabora (cioè lavora insieme) con altre persone al fine di compilare un giornale o una rivista: perciò collabora ad un giornale o ad una rivista, come collabora ad un libro, ad un’opera musicale o teatrale, ad un progetto. Si è mai sentito dire che qualcuno collabora con un libro, con un’opera musicale o teatrale, con un progetto? Certamente no, proprio perché correttamente si dice “collabora ad un libro, ad un’opera musicale o teatrale, ad un progetto”. E allo stesso modo si deve dire “collabora ad un giornale o ad una rivista”, anche secondo le indicazioni concordemente espresse da alcuni celebri dizionari della lingua italiana: Devoto-Oli, Gabrielli, Garzanti, Palazzi, Sabatini-Coletti e Zingarelli. Infatti ciò eviterebbe certe deplorevoli cacofonie come “collabora con un giornale con articoli, racconti e poesie ” al posto della corretta frase “collabora ad un giornale con articoli, racconti e poesie”. E scrivendo “collabora con il giornale” un autore (come pure il giornale o la rivista e il dizionario che ne parlano in tali termini) rivela le sue scadenti qualità linguistico-letterarie.

E a proposito del verbo “collaborare”, che è intransitivo, non si può non deplorare certo uso transitivo che se ne fa: espressioni quali “Giulia collaborava Paolo”, “Paolo era collaborato da Giulia”, “Giulia lo collaborò” e simili sono errate. In questi casi al posto del verbo “collaborare” si deve adoperare il verbo “coadiuvare”, in modo da ottenere “Giulia coadiuvava Paolo”, “Paolo era coadiuvato da Giulia”, “Giulia lo coadiuvò” e simili.

Errori serpeggianti sono anche “ho letto su un dizionario, su un giornale, su una rivista” invece di “ho letto in un dizionario, in un giornale, in una rivista ”, “lavoro su un ristorante, su una fabbrica, sui frigoriferi” invece  di “lavoro in un ristorante, in una fabbrica, ai frigoriferi” e “preghiamo il rosario, la Salve Regina, l’Ave Maria, il Credo” invece  di “recitiamo il rosario, la Salve Regina, l’Ave Maria, il Credo” oppure di “preghiamo recitando il rosario, la Salve Regina, l’Ave Maria, il Credo”. E, sebbene presente una volta nel  Leopardi (“la più totale imagine e storia”: Zibaldone a cura di G.. Pacella, Garzanti, Milano, pag. 2847), non va ignorato l’uso di superlativi insensati come “il più totale”: una cosa o è totale o non lo è e quindi non può esistere una cosa più totale o meno totale; come non va ignorato il fatto che alcuni erroneamente dicono “il palmo della mano” (misura) invece di “la palma della mano” (lato inferiore, opposto al dorso) e “a secondo” (da non confondersi col semplice “secondo”) invece di “a seconda”.

È poi di moda abbinare i due avverbi “così” e “tanto”, i quali sono pressappoco equivalenti. Premesso che il primo è di qualità o modo, ma anche di somiglianza o identità, e il secondo è di quantità o misura, quando si dice che una persona è “così tanto ricca” o “così tanto stupida”, poiché in questi casi “così” corrisponde a “talmente”, in effetti è come se si dicesse che essa è “talmente tanto ricca” o “talmente tanto stupida”; e quindi uno dei due avverbi dev’essere eliminato a causa della ridondanza: “talmente” indica il modo o la maniera della ricchezza o della stupidità, mentre “tanto” indica la quantità o misura delle stesse cose. Pertanto chi adopera la locuzione “così tanto” di fatto usa una tautologia, enfatica espressione di persone abituate al superfluo e allo spreco. Per secoli in queste circostanze è stato adoperato uno solo dei predetti avverbi (nel caso di “così” anche il semplice “sì”); ma in un’epoca come la nostra, tendente all’esagerazione e al superfluo, se ne adoperano inutilmente due,  invece che utilmente uno solo. Semmai nella scelta fra uno dei due avverbi si dovrebbe tener conto se s’intende preferire la qualità (modo o maniera) o la quantità (misura): sicché “così” andrebbe meglio per l’aggettivo “stupido”, riferendosi al modo della stupidità, mentre “tanto” andrebbe meglio per l’aggettivo “ricco”, riferendosi alla quantità della ricchezza: e ciò, anche se la differenza non è notevole.

Altra moda irrazionale e imperversante è quella di chiamare le donne con appellativi maschili, che, pur risultando ridicoli, per lo più vengono pretesi dalle donne stesse. È ridicolo dire “Il ministro s’è sposata”, “Il prefetto è partita” e “Il sindaco s’è incontrata” invece di “La ministra s’è sposata”, “La prefetta è partita”, “La sindaca s’è incontrata”; ed è ridicolo chiamare “direttore” una direttrice di giornale, di televisione o di qualsiasi altro ente. Non parliamo poi delle avvocate che si fanno chiamare “avvocato”, facendo sì che l’unica “avvocata” rimasta nella storia sia la Madonna, alla quale quotidianamente milioni di persone si rivolgono chiamandola “avvocata nostra” nella preghiera Salve Regina. Hanno scritto “avvocata” anche autori medievali e moderni quali Iacopone, Pulci, Magnifico, Aretino e S. Alfonso Maria de’ Liguori: e alla Madonna Avvocata risultano dedicate chiese, feste e canzoni, motivo per cui sarebbe blasfemo chi osasse chiamarela Madonna avvocato e non avvocata. Invece ci si deve convincere che una funzione o un’istituzione o una carica non perde dignità e decoro se è svolta, occupata o tenuta da una donna, la quale quindi ha il sacrosanto diritto-dovere d’esibire a tutti la sua femminilità: cosa che devono riconoscere anche le autorità, i superiori e i mezzi d’informazione.

Ecco qui un elenco d’appellativi femminili che rispettano la femminilità: apostola, appuntata, arbitra, architetta, avvocata (preferibile ad avvocatessa), bagnina, capa, capitana, chimica, chirurga, colonnella, commissaria, critica (d’arte, letteraria, musicale), deputata, diacona, diplomatica, dottoressa (anche della Chiesa), filosofa, funzionaria, ginecologa, impresaria, inviata (speciale di giornali), maestra, magistrata, marescialla, meccanica, medica, (pubblica) ministera, ministra, ottica, papessa, perita, poetessa, prefetta, presbitera, pretessa, primaria, radiologa, sacerdotessa, scienziata, sindaca, soldatessa, sottosegretaria, studentessa, tecnica, vescova; bersagliera, brigadiera, cancelliera, carabiniera, cavaliera, consigliera, finanziera, ingegnera, ragioniera; addestratrice, allevatrice, ambasciatrice, autrice, aviatrice, commendatrice, direttrice, editrice, imprenditrice, ispettrice, istruttrice, moderatrice, percettrice, pescatrice, precettrice, procuratrice (della Repubblica), provveditrice (agli studi, alle opere pubbliche, ecc.), redattrice, relatrice, ricercatrice, scultrice, senatrice; assessora, fattora o fattoressa, incisora, pastora, pretora, questora, recensora, rettora (dell’università); la caporale, la cardinale, la comandante, la corrispondente, la dirigente, la generale, la geometra, la giudice (la giudice amministrativa, istruttrice, monocratica, ecc.), la guardasigilli, la legale, la maggiore (dell’esercito), la militare, la pilota, la pirata, la preside, la presidente (preferibile a presidentessa), la psichiatra, la regista, la responsabile, la sergente, la specialista, la tenente, la terapeuta. E devono essere le donne a pretendere il femminile per sé stesse; altrimenti si vergognino del fatto che rinunciano alla femminilità per voler sembrare maschi, dato che ogni donna deve sempre anteporre la sua femminilità a qualsiasi professione, carica o titolo, ancorché importante.

Inoltre non si può ignorare l’appiattimento mentale di molti italiani: se qualcuno dice solare, riferendolo a persona morta in giovane età, come in una reazione a catena nelle successive occasioni molti ripetono solare, anziché usare un altro aggettivo, come brillante, chiara, esemplare, illuminante, limpida, luminosa, onesta, ottimista, radiosa, raggiante, serena, sincera, speciale, splendente, splendida … Per quest’appiattimento tutte le persone purtroppo precocemente morte risultano solari. E se qualche anglomane dice spending review (anziché “revisione della spesa”) o spread (anziché “differenziale”) o election day (anziché “giorno delle elezioni”), come in una reazione a catena molti ripetono tali parole anglo-americane; e, poiché si cerca di fare dell’Italia una colonia anglo-americana, da ogni parte politica si perde tempo a disquisire o dibattere su election day, dimenticando che chi vuole veramente il bene del popolo deve tendere a risparmiare il denaro pubblico (e ad infastidire di meno i cittadini), magari accorpando ogni tipo d’elezione (politico, amministrativo, europeo, nazionale, regionale, provinciale e comunale) in un unico “giorno delle elezioni” (da tenersi ogni cinque anni, se non si vuole veder crescere l’astensionismo), ricorrendo poi al sistema della sostituzione mediante subentro automatico fino alla naturale scadenza degli eletti eventualmente dimissionari o deceduti nell’arco della durata del mandato.

Infine la passione per l’anglo-americanismo è tale che ora in Italia non soltanto molti festeggiano pazzamente una festa detta “Halloween”, che non ha nulla a che vedere con la tradizione e la cultura dell’Italia, ma usano parecchie espressioni anglo-americane. Essi chiamano “conto alla rovescia” quella numerazione a ritroso dei minuti mancanti ad un evento prestabilito la quale in corretto italiano avrebbe dovuto chiamarsi “conta alla rovescia”, dato che in corretto italiano conto è un’operazione aritmetica del tipo 2+5+7=14 ovvero alla rovescia 14-7-5=2, mentre conta è 1, 2, 3, 4, 5… ovvero alla rovescia …5, 4, 3, 2, 1. Così anche in aritmetica essi accettano supinamente degli anglo-americanismi: e mentre prima, in ossequio all’insegnamento scolastico, separatrice dei numeri decimali è sempre stata la virgola (ad esempio 8,20), ora pongono il punto (ad esempio 8.20) e per i minuti orari usano i due punti (ad esempio 8:20), secondo una modalità anglo-americana che non c’entra con la regola e la cultura dell’Italia. E per questo arrivano a scrivere “magnitudo di gradi 6.9” e a pronunciare “magnitudo di gradi sei punto nove” anziché rispettivamente “magnitudo di gradi 6,9” e “magnitudo di gradi sei virgola nove”. 

Carmelo Ciccia

Carmelo Ciccia

Nato a Paternò, dopo la laurea in lettere a Catania e un periodo d’assistentato universitario e d’insegnamento liceale in quest’ultima città, si è trasferito nel Veneto, dove è stato docente e preside, per molti anni nel liceo classico di Conegliano (TV), città in cui risiede e in cui svolge varie attività culturali. Ha pubblicato una ventina di libri e una quarantina di opuscoli ed estratti, anche in latino, quasi tutti di saggistica e di critica letteraria, principalmente su Dante, ma anche su altri scrittori. Collabora a numerosi giornali e riviste con articoli e recensioni (oltre un migliaio quelli finora pubblicati) ed ha ottenuto vari riconoscimenti, fra cui alcuni primi premi, premi della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte, concessa dal Presidente della Repubblica, e la medaglia d’oro della città di Conegliano, concessa dal sindaco. Nel 2005 è stato invitato al Quirinale dal presidente Ciampi.

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