“I giganti della montagna” al Teatro “Verga” di Catania
Dipasquale veste di nuova luce l’opera dando speranza al nulla di Luigi e Stefano Pirandello
«… vorrei (“Marta mia”) che sentissi cosa sto facendo nei Giganti della montagna!… sono il trionfo della fantasia, il trionfo della Poesia, ma insieme anche la tragedia della Poesia in mezzo a questo brutale mondo moderno.»
Così scriveva Luigi Pirandello alla sua adorata Musa mentre toccava e ritoccava, in incessante insoddisfazione, l’opera che avrebbe dovuto segnare il vertice della sua eccellenza poetica ma che rimase sospesa al secondo atto, abbozzandone però il terzo che consegnò agonizzante al figlio Stefano, anch’egli drammaturgo, il quale, poi, lo portò a termine. E ve lo portò dentro una visione che non è del padre (anche se poi in quegli ultimi anni, Luigi, la viveva di fatto) ma marcatamente sua: la «libertà» è «condanna»; e già Stefano aveva violato il pensiero del padre (che lo aveva subito) qualche anno prima, nel 1934, riscrivendo per lui tutto il secondo atto e buona parte del terzo di Non si sa come (mia recensione su l’Alba, gennaio/febbraio 2011, ma si veda soprattutto, per la ricchezza di puntualizzazioni, Il gioco delle parti/ Vita straordinaria di Luigi Pirandello di Matteo Collura, edito da Longanesi). Ma «la libertà come condanna» nei Giganti della montagna però è diversa di quella di Romeo Daddi di Non si sa come, il quale cerca la giustificazione come liberazione anche della propria vita delittuosa; nei Giganti di Stefano la libertà coincide con la fantasia dell’atto creativo del poeta che vuole superare o integrare il reale con uno slancio verticale fra il mistico e l’irrazionale, fra il misterioso e il magico. Ma codesta libertà non è poi tanto lontana da quella di Luigi Pirandello che proprio in questa direzione artistica voleva toccare la vetta d’Apollo, avvertendone, come dice la citazione in apertura, profeticamente il senso tragico, ossimoro del dichiarato trionfo. Contraddizione forte codesta, ma consona alla sua arte e alla sua vita. Vita e arte che, di fatto, nei suoi difficili anni Trenta, sono ostaggio dei suoi incubi.
I giganti della montagna, in questi ultimi giorni, sono stati (lo saranno fino al 12 maggio) in scena al Teatro “Verga” di Catania sotto la regia di Giuseppe Di Pasquale, direttore dello Stabile etneo che certamente ha avuto un bel da fare nell’allestire l’incompiuta dello scrittore agrigentino con l’aggiunta del terzo atto di Stefano Pirandello. Ma il risultato è stato lodevole nella regia, nella scenografia di Antonio Fiorentino, nei costumi di Elena Mannini, nelle musiche di Marco Betta, nella coreografia di Donatella Capraro, nelle luci di Franco Buzzanca. Eccellenti tutti gli interpreti: da Magada Mercatali (La Contessa Ilse) a Vincenzo Pirrotta (Il mago Cotrone), da Gian Paolo Poddighe (Il Conte, marito di Ilse) a Vitalba Andrea (Diamante, la seconda donna) a Giancarlo Condé (Il caratterista Cromo), da Enzo Gambino (L’attore giovane Spizzi) a Barbara Gallo (Battaglia, generico-donna), da Nicola Notaro (Sacerdote) a Giampaolo Romania (Lumachi col carretto); e poi Gli scalognati: Camillo Mascolino (Il nano Quaquèo), Sergio Seminara (Duccio Doccia) Anna Malvica (La Sgricia), Plinio Milazzo (Milordino) Lucia Portale (Mara-Mara con l’ombrellino), Lucia Fossi (Maddalena), Francesco Russo (Maggiordomo) e i Fantocci: Lucia Fossi, Luca Iacono, MarinaLa Placa, Liliana Lo Furno, Alberto Mica, Viviana Militello, Ramona Polizzi, Francesco Russo, Clio Scira Saccà, Giorgia Sunseri e Irene Tetto. Si tratta in definitiva di una pièce di alto livello teatrale.
Nell’arduo compito di portare in scena l’ultimo Pirandello: quello ormai definitivamente sconfitto dalla vita nella sua totalità di realtà e finzione, Dipasquale è stato buon maestro. E lo è stato nel saper rappresentare in particolar modo la sconfitta dell’arte nella società moderna attraverso la morte di Ilse, capocomico di una compagnia di attori, per mano del popolo, braccio della volontà dei Giganti, esseri superomistici che ormai hanno rinunciato ai richiami della vita interiore per servire soltanto i piaceri materiali. Così questi esseri della montagna, di cui si avverte la presenza senza mai ritrovarli sulla scena, favoriscono la morte della Contessa-attrice che viene sbranata dal popolo come Orfeo nelle mani delle baccanti. E la scena è resa suggestiva da Ilse in gramaglie che ricorda la madre straziata dei Sei personaggi in cerca d’Autore, la Mater dolorosa, come la definisce Pirandello, che era sì la donna siciliana murata in casa ma che rappresentava soprattutto la moglie Antonietta, abbandonata nella solitudine dell’irreversibile pazzia in un ospedale, anch’essa musa ispiratrice (agli antipodi dell’avvenente e giovane Marta) ma del dolore e dello strazio; musa della pazzia nell’assurdo del teatro del marito!
E la morte viene rappresentata scenograficamente in un tunnel, a volte armonizzato di luci, di colori e di suoni, che “traghetta” gli esseri umani nell’aldilà che poi non è in netta separazione con l’al di qua: è un luogo di luce – dice Antonio Fiorentino, esecutore della volontà del regista – proprio come quelli che dicono di aver visto coloro i quali, accostandosi alla morte, poi ritornano alla vita. Quindi rappresenta il viaggio che gli attori della compagnia di Ilse fanno verso la montagna, un viaggio che è di salita non solo verso il suo vertice ma anche verso il cielo che non è separato nettamente dalla terra ma che con essa si salda quasi immanentisticamente; e questo è bene espresso nei momenti (un paio di volte) in cui la scena è invasa da luci, da colori e dal suono mistico dell’organo: una salita di speranza, un’uscita dall’oscuro e distruttivo gorgo dell’essere e dell’apparire. Ma dal gorgo si può uscire col sogno, impersonato nel dramma dal mago Cotrone che vive in una villa assieme agli Scalognati. Dice infatti il mago a Ilse che vi si è rifugiata col suo seguito per cercare un luogo dove recitare La favola del figlio cambiato: «Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. E’ cosa naturale. Avviene ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.»
Ma se la vita è dominata dal sogno e dalla fantasia, se rassomiglia alla villa che rifugia Cotrone e gli Scalognati, dov’è la realtà e dov’è la finzione? C’è interazione e scambio fra le due entità? Di che natura è il loro confine? Dice Ilse a Cotrone: «Lei, inventa la verità?» e il mago risponde: «Non ho mai fatto altro in vita mia!… Tutte le verità che la coscienza rifiuta… Ombre che passano. Con questi miei amici m’ingegno di sfumare sotto diffusi chiarori anche la realtà di fuori, versando, come in fiocchi di nubi colorate, l’anima, dentro la notte che sogna.»
E allora sarebbe un po’ tutto come «L’arsenale delle apparizioni» della villa e gli uomini sarebbero simili ai «cinque colossali birilli con facce umane per capocchie» nel «vasto stanzone», dove dimorano dei fantocci con «parvenze umane»: «tre marinaj, due sgualdrinelle, un vecchietto in finanziera capelluto, un’arcigna vivandiera.»
E allora gli uomini sarebbero degli automi privi della volontà e della ragion d’essere che si illudono d’avere; schiavi dell’illusoria libertà; non persone quindi ma personaggi in perenne attesa di un Autore che dia loro (come nei Sei personaggi) l’agognata forma. Così doveva sentirsi Pirandello in quegli anni ossessivi in cui la solitudine e le pene gli si acuivano sempre più; a tal punto da non riuscire nemmeno a vendicarsi scrivendo della «stupidità e della volgairità degli uomini.» Ecco allora che gli cadde la stanca mano che gli rialzerà il figlio Stefano senza riuscire però a far trionfare il mito dell’arte e della poesia com’era nel progetto del padre.
Ora, Dipasquale ha ripreso l’opera e ha voluto darle nuova luce per vestire di speranza il nichilismo dei due Pirandello: lo direbbero il carretto ricomposto alla fine del dramma e il discorso del Conte; perché la poesia e la cultura non possono definitivamente morire; sono come l’Araba Fenice: risorgono dalle ceneri a miglior vita.
Che sarebbe infatti l’uomo senza il sogno, la fantasia e l’arte ricompensatori dei vuoti e delle offese della vita?
Mi si affaccia Baudelaire che su questo concetto aprì e fece scuola. Per cui concludo in semitestuale parafrasi: la creazione artistica è «la ricompensa dello sforzo quotidiano» che permette attraverso il sogno «di scoprire le leggi oscure della loro produzione, e dedurre da questo studio una serie di precetti il cui divino scopo è l’infallibilità della produzione poetica».
Pino Pesce
Mar, Mag 8, 2012
Spettacolo