Estasi di note nella “Carmen” del “Bellini” di Catania
Mar, Feb 28, 2012
Will Humburg esalta Bizet; Tatiana Lisnic glorifica Micaela. Il resto fra alti e bassi!
Ancora mi infiamma (eppure è passato già un mese), e mi pervade tutto l’essere, la Carmen di Bizet, su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy tratto dall’omonima novella di Prosper Mérimé, rappresentata al Teatro Massimo “Bellini” di Catania.
Merito, in vetta, di Will Humburg che ha coperto, con la sua magica bacchetta, le carenze scenografiche e qualche forzatura di regia fino al paradosso.
Vincenzo Pirrotta è un bravo regista di prosa, ma, in questa sua prima (mi pare) esperienza operistica, ha vacillato, e in giù, con riti mafiosi e scioglimento di bimbo nell’acido e scenografia scarna: 40 tavoli possono consumare una storia d’amore, magari renderla fortemente carnale e più coreografica, specie se hanno una seguidilla a contorno; non possono però, coi piedi in aria, dare l’idea di una selva andalusa nella scena delle montagne nel terzo atto e, uno sull’altro, rappresentare le pareti dell’arena di Siviglia nel quarto. La scena è teatro! Tanto ne valeva lasciare soltanto i bianchi teli che scendevano a piombo con le cangianti gradazioni di rosso che simboleggiavano il sangue; non convincenti però: il teatro vuole l’azione in scene che ricreano la realtà, anche se con fantasie artistiche convenevolmente trasgressive. Non può uno scenografo parlare e/o rispondere a se stesso; deve interloquire col pubblico che chiede di essere gratificato dei quattrini sonanti lasciati al botteghino. Dico scenografo per accomunare nell’operazione di scena anche e soprattutto Sebastiana Di Gesù che ne è la fonte principale. Chi ha operato di più, poi, sono fatti loro. Lo spettatore giudica. E penso abbia giudicato positivamente, nel terzo atto, le ambientazioni scenografiche delle zingare e le carte da gioco e di Micaela con manto da Addolorata che cerca l’amato José fra le montagne. Nella prima scena è stata coinvolgente la rete che scendeva fra fumo e carte di quadri e di picche (simboli di armi da taglio) a voler proprio rivelare, dietro una sorta di velo di Maya, l’infausto futuro della gitana Carmen; nella seconda, è stata molto suggestiva la colata di crocefissi neri illuminati ai contorni come nei venerdì santi siciliani da Trapani a Biancavilla.
Ho trovato quest’ultimo scenario di grande espressione simbolica; e lo sarebbe stato di più senza quei deturpanti tavoli-selva. Di rilievo, poi, giacché vi si è, come coreoscenografia, le pitture di Goya nel primo e nel quarto atto: di originale impatto la sfilata in sala degli stendardi con le tavole della tauromachia nel quarto; probabilmente, per esprimere l’atmosfera di festa e di morte come sintesi di baldoria, dopo l’uccisione del toro, e di dolore del venerdì santo in Andalusia come (per quest’ultimo evento) in Sicilia.
La festa è già nell’ouverture con l’allegra habanera; la morte all’apertura di sipario con una marcia funebre, anticipatrice del tragico epilogo. Questa coppia di contrari aleggia in tutta l’opera e ne richiama un’altra: amore e morte che si attraggono e si respingono fino alla tragica schermaglia finale che si conclude con l’uccisione di Carmen per mano di Don Josè, respinto dall’amata che invece ama il torero Escamillo. Una morte fatale quindi; annunciata dalla parabola del fiore di gaggia, lanciato (come guanto di sfida) da Carmen a Don Josè che lo raccoglie da terra per subirne, anche lui, la malasorte: «E questo fiore che hai/ conservato. Oh! puoi gettarlo/ adesso… non cambia niente./ E’ rimasto abbastanza sul tuo/ cuore; l’incantesimo è fatto…» (Carmen).
E “l’incantesimo” si intreccia con un’ineluttabile destino di morte: «Quadri! Picche! La morte!/ Ho letto bene… prima io, poi lui…/ Per tutti e due, la morte!/ … / Invano le mischierai,/ Non serve a nulla.» (Carmen). E più avanti Don José alla gitana: «No, Carmen, non me ne andrò!/ E la catena che ci lega/ Ci legherà fino alla morte…»; e poi: «Ti tengo, e saprò ben forzarti/ A subire il destino/ Che inchioda alla mia la tua sorte!/ Dovesse costarmi la vita.» E’ il determinismo dell’imperante Naturalismo francese che traspare ideologizzando anti-ideologicamente l’opera.
In questo determinismo, non c’è approdo per l’amore, che è sempre infelice, sia per la libertaria Carmen: «L’amore è un uccello selvatico/ Che nessuno può addomesticare» perché «zingaro» che non conosce «legge», sia per lo sventurato Don José, che da militare modello, per essersi infatuato della zingara, diventa contrabbandiere e, poi, assassino, sia per la dolce incolpevole Micaela.
Il testo e la potenza della musica raccontano una storia d’amore e di morte, di festa e di dolore, di gioia e di lutto che va intesa in senso universale. Per cui, il “duende” di Garcia Lorca che riscopre Pirrotta, inteso come forza travolgente ed ispiratrice, magica e misteriosa, non rimane circoscritto alla sola Andalusia; appartiene alla storia di tutta l’umanità, orale e scritta (con gnomi, folletti e spiritelli, anche un po’ cavalcantiani), raccontata dai popoli e dai loro cantori. C’è quindi l’universale mitologia delle forze primigenie ed arcane, delle pulsioni di vita e di morte, di amore e di odio. E sono queste forze a spingere, Carmen, più o meno cosciente, a cercare come Cristo, ma su piani diversi, la morte; che è, nella zingara, libertà individuale da ogni forma di coercizione sociale; nel Salvatore, libertà collettiva da ogni forma di male.
E queste forze sono state meglio espresse nella riuscita commistione di danza, canto e musica nelle scene della lite fra sigaraie frenate dai dragoni, della locanda di Lillas Pastia e dei venditori, in particolare di arance che le giocolavano fra aria e mani. Ma la coreografia della lite è stata di un vigore unico che non è raccontabile: ha ragione Pirrotta quando dice che «uno spettacolo non lo si può spiegare, lo si deve vedere». Ma come si faceva a non porre (regista e coreografa) tanta espressività, “duende” a parte, nel balletto dello scontro fra sigaraie: il gruppo della Carmensita e quello della sua rivale Manuelita rimasta ferita. E’ il balletto della “vitalità dionisiaca” per eccellenza, diventato un classico coreografico, da quando Carlos Saura, sull’estetica di Nietzche (il filosofo aveva tanto ammirato Bizet), lo ha reso immortale nella sua Carmen, musical del 1983; la quale, poi, ha a modello il musical per eccellenza: West Side Story che da cinquant’anni fa scuola.
Questa stessa vitalità, in preda a qualche furibondo folletto, porta Carmen in orgiaca corsa («sotto il naso» del tenente Zuniga) al centro della sala mentre si chiude la tela del primo atto. Ma trovo, per completezza, l’energia più potente e suggestiva, fino all’estasi totale, nel soprano Tatiana Lisnic che inginocchiata, gli occhi al cielo – impersonando Micaela (nella suddetta scena dei crocefissi) – canta con straziata dolcezza l’aria che coinvolge e convince di più nella Carmen di questa edizione catanese. E nel mistico dolore del canto c’è tanto succo della storia: «Vado a vedere da vicino quella donna/ Le cui arti maledette/ Hanno finito col fare un infame/ Dell’uomo che un tempo amavo!»
«Quella donna» (Carmen), interpretata dal mezzosoprano Rinat Shaham, ha deluso invece l’immaginario del pubblico (non ho sentito [letto sì] giudizi nettamente positivi) che si aspettava più passione da mantide, più irruenza, più sinuosità e più folclore (anche nel vestito: l’occhio reclama la sua parte!). Alla israeliana però ritorna tanto buon merito nel canto, dove ha convinto tutti, sia nei toni bassi che in quelli alti, adattati con disinvoltura vocale ai temi. Quindi personaggio di “sangu” (vocabolo totale per Pirrotta) solo nel canto. La Carmen della tradizione letteraria, fino ai librettisti bizetiani, quella che “fa sangu”, come dice il regista, sarebbe dovuta apparire quindi anche nel carattere del personaggio attraverso il mezzosoprano che la impersonava, cosi come l’immaginario collettivo la pretende!
E sul sangue, Pirrotta s’è spinto troppo; ne ha fatto un tema ritritato. Aveva detto tanto e molto bene in Quei ragazzi di Regalpetra (l’Alba, agosto 2011). In Carmen Il sangue scorre alla fine, come in tante tragedie. E’ vero, «aleggia nell’aria», ma avrebbe fatto meglio il regista a lasciarlo simbolicamente nei teli perpendicolari e nei nastrini rossi ai piedi dei tavoli-arena!
Che dire sull’artefice del sangue: Don José, interpretato dal russo Vsevolod Grivnov? Un personaggio «sanza infamia e sanza lodo» dalla vocalità non accattivante; più prestante invece il baritono cubano Homero Perez-Miranda nel ruolo di Escamillo: voce sicura ed atteggiamento elegante ed esuberante. Rispettosi dei ruoli il resto dei cantanti: Giuseppe Esposito e Michele Mauro (contrabbandieri; rispettivamente Dancairo e Remendado) che sembravano usciti dallo stesso calco; Salvo Todaro e Jorge Perez (tenente Zuniga e brigadiere Morales); Piera Bivona e Loredana Megna (le due zingare Frasquita e Mercedes). Questi gli artisti del 25 gennaio e delle recite con il primo cast. In altre serate c’è stato anche un secondo cast con altri cantanti nel ruolo dei protagonisti: Stella Grigorian in Carmen, Marcella Polidori in Micaela e Alex Vicens in Don José.
Sempre ammirevole il coro del “Bellini” guidato da Tiziana Carlini, specie all’inizio del IV atto; anche lodevole il coro dei bambini: Gaudeamus Igitur Concentus, diretto da Elisa Poidomani. Indicati i costumi di Francoise Raybaud (coadiuvato da Virginia Carnabuci) che richiamavano il tempo della storia; buona la coreografia di Giovanna Velardi.
Nel seggio di Euterpe il Maestro tedesco che ha diretto l’orchestra del “Bellini” con divine note e portamento leggiadro. Per questo, è stato acclamato assieme alla sua orchestra, tutta sul palco a chiusura dell’opera, e a Tatiana Lisnic.
Humburg d’istinto mi ricorda il geniale coreografo e regista Micha van Hoecke che aveva affermato: «Bisogna servire il teatro e non servirsi del teatro».
Pino Pesce
Hai espresso chiaramente quello che è stato dissacrato da Pirrotta. Condivido ogni tua parola, soprattutto perchè l’ho vista. Incisiva la frase finale.
Grazie. Pirrotta comunque resta un bravo regista. Deve però pestare il terreno che conosce!
Interessante la recensione; la condivido nel contenuto!
Una consapevolezza che si fa convinzione; un’abitudine che è divenuta vizio: la comoda trasformazione “palermitanizzante” che accomuna il Pirrotta alle pratiche di una conterranea come Emma Dante. Tutta questa carnalità che viene ostentata e demonizzata attraverso una simbologia autoreferenziale che si compie nelle ritualità del sangue, delle “luminarie”, delle croci, del lutto in pizzo nero, ha stancato e viaggia su un binario logoro e stereotopizzante. Quando nell’essenzialità ritrovi il senso di una ricercatezza della materia e della forma che fu del Living, che è di Brook, giustifichi e comprendi l’approdo a certe soluzioni, quando esse si risolvono in una copia sterile che si adagia comodamente su un letto di risparmi e finte concettualizzazioni, cessa di esistere tale condizione!
Marilisa Yolanda Spironello
Fai bene, Marilisa, ad accomunare,nella buona come nella cattiva sorte, Emma Dante e Vincenzo Pirrotta. Hanno raccolto consensi (e anche ben meritati) in un bel pugno di anni! Ma sembra (Emma prima e Vincenzo dopo)se li stiano giocando! Nella loro “Carmen” c’è troppa “sicilitudine” forzata! troppa libertà di regia che mortifica librettisti e compositore. Addirittura in Emma ci sono in scena montacarichi ed ascensore che sbarca il torero Escamillo! Insomma rendiamo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio: queste riletture troppo dissacrate offendono gli autori e la gente che va a teatro per amore e per crescere in cultura!!!