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“Il teatrino delle meraviglie”: un inno alla tolleranza

Gio, Feb 9, 2012

Cultura, Spettacolo

Da sx Mimmo Mignemi, Fulvio D'Angelo

Il Teatro Stabile di Catania presenta con surrealismo una produzione tratta da Cervantes

Nei ruoli principali due nomi di spicco come Mimmo Mignemi e Fulvio D’Angelo, affiancati da un cast di qualità

Un inno alla tolleranza che sceglie ante litteram il puro surrealismo. Un’illusione paradossale che anticipa di secoli il teatro dell’assurdo. È Il teatrino delle meraviglie di Cervantes, l’immenso autore del romanzo Don Chisciotte della Mancia, meno indagato sul repertorio teatrale, tanto che il nuovo allestimento del Teatro Stabile di Catania diventa un’occasione rara per un’incursione nella drammaturgia dell’autore iberico, qui riproposta nella rivisitazione di Roberto Laganà che firma testo, regia, scene e costumi.

Per il rilievo artistico e culturale, il progetto – fortemente voluto dal direttore dello Stabile etneo Giuseppe Dipasquale – ha ottenuto il patrocino dell’Ambasciata di Spagna e dell’Istituto Cervantes. Dal 10 febbraio all’11 marzola Sala Muscoaccoglierà per un mese la produzione dello Stabile etneo, che si annuncia tra i titoli di punta del cartellone 2011-2012 “Donne. L’altra metà del cielo”.

Nei ruoli principali due nomi di spicco come Mimmo Mignemi e Fulvio D’Angelo, affiancati da un cast di qualità che annovera Ester Anzalone, Giovanni Carta, Cosimo Coltraro, Yvonne Guglielmino, Alessandro Idonea, Margherita Mignemi, Giampaolo Romania, Maria Rita Sgarlato, Aldo Toscano, Manuela Ventura. Carmen Failla firma le musiche, Silvana Lo Giudice le coreografie, Franco Buzzanca le luci.

Cervantes inserì il testo in “Otto commedie e otto intermezzi” (Ocho comedias y ocho entremeses, 1615) che include Pedro de Urdemalas, il suo capolavoro teatrale, e appunto l’intermezzo El retablo de las maravillas, il più rimarchevole di questo gruppo di quadri popolareschi, che trovano qui la migliore espressione.

La vicenda stigmatizza tutto un contesto dominato da spietate persecuzioni razziali contro ebrei nati o convertiti (marrani), mentre si celebrano processi a fanatica salvaguardia della purezza della razza cristiana. Ne approfittano due astuti commedianti girovaghi che portano in un borgo rurale il loro “teatrino delle meraviglie”, avvertendo però il pubblico che i “portenti” potranno essere visti solo da chi non abbia una sola goccia di sangue ebreo tra gli ascendenti. La sera della rappresentazione i due imbonitori evocano visioni tanto strabilianti quanto inesistenti. Eppure tutti i presenti – e le autorità più degli altri – temendo di compromettere la propria reputazione, preferiscono subire l’inganno e fingere stupore ed entusiasmo, cercando addirittura di convincere i più scettici.

L’intera comunità è trascinata in una delirante e grottesca allucinazione di massa, che mette a nudo le tragiche conseguenze del pregiudizio e della rimozione consapevole: ossia scegliere di vedere quello che non c’è e non vedere quello che c’è. Alla vacuità del nulla corrisponde la consistenza delle illusioni, e perfino la ‘reale’ visione finale viene scambiata per una fantasia prodotta dal “teatrino delle meraviglie”.

La farsa approda così ad un epilogo dalla forte tensione drammatica ed etica, mirata a frenare nello spettatore la coazione a ripetere gli inganni rappresentati in scena, ad evitare che i singoli e la collettività si lascino travolgere dalla quotidiana spirale di convenzioni sociali, intolleranza, razzismo. Ed è inevitabile cogliere una sorta di nefasta premonizione in un testo, scritto nel 1615, che mette in guardia dall’esasperato antisemitismo, anticipando i problemi di identità e appartenenza etnico-sociale, che avrebbero dilaniato l’Europa nello scorso Secolo Breve. 

Se il tema è di grave spessore, El retablo de las maravillas si contraddistingue per la leggerezza insita nella griglia creativa che l’autore ha giudicato adeguata, ossia l’entremés (Intermezzo), praticato da Lope de Ruega a Quinones de Benavente, dal XII al XIX secolo: género chico, intercalato fra il primo e il secondo atto di una commedia, espressione di una brevità strutturale e qualitativa, lontana dalla dilatazione che Cervantes ha riservato al Cavaliere dalla Triste Figura.

Redazione l’Alba

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